—  Michele Giorgio, GERUSALEMME, 11.8.2014

Tiene la nuova tre­gua di 72 ore scat­tata a mez­za­notte tra dome­nica e lunedì e al Cairo ieri sono giunti anche i dele­gati del governo Neta­nyahu. E’ per­ciò ripar­tito il nego­ziato indi­retto, con la media­zione degli egi­ziani, per un accordo di ces­sate il fuoco per­ma­nente. Senza grandi pos­si­bi­lità di suc­cesso in verità. In Israele tanti invo­cano l’escalation dell’offensiva mili­tare che pure ha già ucciso circa 2000 pale­sti­nesi, per 2/3 civili, e una ses­san­tina di sol­dati. E pro­prio intorno ai sol­dati entrati in mese scorso a Gaza cre­sce il mito di “Mar­gine Pro­tet­tivo”. A tal punto che va a ruba per­sino lo sperma dei mili­tari delle unità di com­bat­ti­mento. L’Ospedale Ram­bam di Haifa ha comu­ni­cato che da quando è comin­ciata la “nuova guerra” con­tro Gaza, un numero cre­scente di donne che si rivol­gono alla banca del seme fa richie­sta di dona­tori con un back­ground di com­bat­tenti. Sperma guer­riero per avere figli più forti. D’altronde lo stesso ospe­dale per­mette alle donne che desi­de­rano un bam­bino di poter sce­gliere un dona­tore con un pas­sato nelle unità scelte dell’Esercito.

«Il ser­vi­zio mili­tare rac­conta qual­cosa della per­sona», ha spie­gato al sito Ynet Dina Amin­pour, respon­sa­bile della banca del seme del Ram­bam Hospi­tal, «un uomo che ha ser­vito in un ruolo di com­bat­ti­mento ha una forte costi­tu­zione fisica che con­ferma le aspi­ra­zioni gene­ti­che delle donne (che vogliono un figlio, ndr)». Amin­pour ha aggiunto che una ses­san­tina di israe­liane si rivol­gono ogni mese alla banca del seme dell’ospedale. Negli ultimi giorni addi­rit­tura la metà ha chie­sto dona­tori con un pas­sato di com­bat­tente nell’Esercito, un requi­sito dive­nuto impor­tante come l’altezza e il livello di istruzione.

Al Cairo invece si decide della qua­lità della vita futura dei neo­nati di Gaza e del diritto di bam­bini e adulti di vivere una esi­stenza in dignità e libertà e non più in una pri­gione a cielo aperto. E’ una richie­sta di tutta la popo­la­zione che le varie forze poli­ti­che, quindi non solo Hamas, che com­pon­gono la dele­ga­zione pale­sti­nese hanno posto sul tavolo dei media­tori egi­ziani. Israele da parte sua insi­ste per la smi­li­ta­riz­za­zione della Stri­scia. Punti su cui entrambe le parti non inten­dono cedere. Dome­nica sera da Doha il lea­der dell’ufficio poli­tico di Hamas, Kha­led Meshaal, ha detto che una tre­gua dura­tura deve por­tare alla revoca del blocco alla Stri­scia di Gaza. Il ces­sate il fuoco di 72 ore rag­giunto  con Israele — ha spie­gato Meshaal all’agenzia Afp — «è uno dei mezzi o delle tat­ti­che desti­nate alla riu­scita dei nego­ziati o alla distri­bu­zione degli aiuti uma­ni­tari. Il nostro obiet­tivo è che le richie­ste pale­sti­nesi siano sod­di­sfatte e che la Stri­scia viva senza blocco». Un’intervista alla quale il governo Neta­nyahu ha rispo­sto con le dichia­ra­zioni del mini­stro per la sicu­rezza interna Yitz­hak Aha­ro­no­vich. «C’è poca spe­ranza di rag­giun­gere un accordo. Ci vor­rebbe un mago – ha com­men­tato il mini­stro — A mio giu­di­zio alla fine delle 72 ore si tor­nerà ai com­bat­ti­menti e Israele deve pen­sare al pas­sag­gio successivo».

L’incubo della ripresa della “guerra di attrito” vista negli ultimi giorni (almeno 15 morti tra i pale­sti­nesi, gran parte dei quali civili) o di una nuova pesante esca­la­tion mili­tare, grava sulla Stri­scia di Gaza men­tre le orga­niz­za­zioni uma­ni­ta­rie con­ti­nuano la distri­bu­zione agli sfol­lati. Tante fami­glie, appro­fit­tando della tre­gua, ieri sono tor­nate a casa. Ma chi la casa l’ha per­duta nei deva­stanti bom­bar­da­menti del mese scorso – circa 80mila per­sone, secondo fonti locali – non può fare altro che vivere nelle scuole dell’Unrwa.

Fio­ri­scono nel frat­tempo le ini­zia­tive inter­na­zio­nali a soste­gno dei pale­sti­nesi di Gaza e dei loro diritti. L’Ong turca IHH ha comu­ni­cato ieri di volere orga­niz­zare un nuovo con­vo­glio navale per rom­pere il blocco di Gaza attuato da Israele. La IHH aveva orga­niz­zato assieme alla Free­dom Flo­tilla la spe­di­zione del mag­gio 2010, bloc­cata in acque inter­na­zio­nali l’arrembaggio dai com­mando israe­liani saliti a bordo della nave Mavi Mar­mara (9 atti­vi­sti uccisi). Un assalto che aveva pro­vo­cato il gelo nelle rela­zioni fra Tel Aviv e Ankara che dura ancora oggi nono­stante un ten­ta­tivo di ricon­ci­lia­zione mediato l’anno scorso da Washing­ton, che aveva por­tato alle scuse di Israele e all’avvio di una trat­ta­tiva sull’indennizzo delle fami­glie delle vittime.

L’Associazione della stampa estera in Israele e nei Ter­ri­tori pale­sti­nesi occu­pati (Fpa), intanto pro­te­sta per i metodi che descrive come «poco orto­dossi» usati dalle auto­rità di Hamas e dai loro rap­pre­sen­tanti nei con­fronti dei gior­na­li­sti inter­na­zio­nali lo scorso mese a Gaza. «In molti casi – dice la Fpa — gior­na­li­sti stra­nieri sono stati mole­stati, minac­ciati o inter­ro­gati su sto­rie o infor­ma­zioni ripor­tate nei loro media o sui social media». La Fpa afferma di aver appreso che Hamas sta­rebbe cer­cando di met­tere in piedi una pro­ce­dura di ‘valu­ta­zione’ per sche­dare alcuni giornalisti.