Archive for marzo, 2012


Il governo di centrodestra abbandona «definitivamente» il progetto.

LISBONA – Il governo di centrodestra portoghese ha «definitivamente abbandonato» il progetto per l’alta velocità – in particolare la sua tratta di competenza del corridoio 5 per la linea Kiev-Lisbona – nonostante avesse già ricevuto fondi dall’Unione europea. Un atto unilaterale che svela quanto sia falsa la motivazione del nostro presidente del consiglio, Mario Monti, quando sostiene che la Tav in Val di Susa s’ha da fare perché è «un impegno già preso con l’ Unione europea». Sostiene Lisbona, invece, che i 128 milioni già ottenuti da Bruxelles per l’opera – una grande stazione nella capitale e la costruzione della linea verso Madrid – non sono un vincolo indissolubile perché il paese non possa tirarsi indietro. Il governo guidato da Pedro Manuel Pessos Coelho, uscito dalle elezioni del giugno scorso, aveva fatto del no all’alta velocità argomento di campagna elettorale. All’inizio dell’autunno, aveva sospeso il progetto in attesa di ulteriori verifiche, con la forte motivazione che il Portogallo era sprofondato nella crisi e la politica di austerità imposta dalla troika – Ue, Bce e Fondo monetario – non avrebbe permesso di giustificare all’opinione pubblica spese straordinarie come quelle per i treni del corridoio 5. Mercoledì scorso, il governo ha colto al volo una sentenza della Corte dei conti che ha bocciato il progetto per alcune errori procedurali. Il giorno dopo, mentre il paese si fermava per lo sciopero generale, il consiglio dei ministri si riuniva assumendo la bocciatura e comunicando l’abbandono «definitivo» dell’alta velocità. Una scelta che potrebbe costare comunque cara: il consorzio Elos, incaricato dei lavori dal precedente governo nel maggio del 2010, chiede ora i danni per 264 milioni di profitti mancati. Il governo ha risposto per ora che pagherà soltanto i lavori già fatti dei circa 150 chilometri di tratta ferroviaria verso la Spagna. Tra i sindacati, si teme però che la fine del progetto possa portare alla perdita di oltre 200 posti di lavoro. Coelho ha incontrato Monti a Roma lo scorso 29 febbraio. Dai resoconti ufficiali, pare che non si sia parlato del corridoio 5 – cui il progetto della Val di Susa dovrebbe collegarsi – né della marcia indietro portoghese. Monti perde un altro argomento a favore dell’opera, perché la decisione di Lisbona significa che si può anche dire no all’Europa. E tacere, a questo punto, vuol dire che le motivazioni italiane del tirar dritto sulla Tav sono di carattere esclusivamente interne al governo. E’ scontato che il premier Coelho, in quanto cattivo modello, subirà forti pressioni da Bruxelles per tornare sui suoi passi. Entro aprile, il Portogallo dovrebbe ricevere prestiti per 15 dei 78 miliardi di euro stabiliti dopo un accordo con la troika per «salvare» il paese dal baratro. Vedremo se un treno, che si chiama desiderio e destinato adesso a finire nel nulla nel suo viaggio verso occidente, cambierà le carte, o se un no all’Europa è oggi possibile. Anche da parte di un governo di un paese partner.

Da Il Manifesto del 27/03/2012.

Report: previdenza asociale.

26/03/2012 di triskel182

Le domande a cui il servizio di Bernardo Iovene sulle pensioni ha cercato di rispondere: del nostro stipendio, quanto verso per le pensioni, a chi va e quanto mi torna? Se è vero che sulle pensioni si è fatta molta cattiva politica, specie per le pensioni baby nel settore pubblico da parte dei governi democristiani e socialisti. Altrettanto vero che l’Italia spende una buona fetta del suo PIL per le pensioni: ma dentro questa fetta sono dentro non solo i baby pensionati, ma anche le pensioni d’oro e i vitalizi dei parlamentari. IL ministro fornero, che è dovuto intervenire in fretta per sanare i problemi di bilancio, è intervenuto però in modo drastico, col passaggio al sistema contributivo. Ancora una volta però, in modo poco equo: mentre per la maggior parte degli italiani questo sistema deve valere da subito, per i signorni parlamentari questo avverrà dalla prossima legislatura.Inoltre la riforma non ha tenuto conto degli esodati e dei mobilitati: gli ex lavoratori messi in mobilità da Poste Italiane o che hanno accettato, firmando un accordo con lo stato, di uscire dal lavoro in attesa della pensione. Attesa rinviata per un’altra legge dello stato, la riforma Fornero. Così mentre i 300000 esodati o mobilitati sono rimasti senza lavoro, senza sussidi e con la pensione che si è allontanata, grazie ad una legge dello stato, non si sono toccati i privilegi di altri italiani perchè non è corretto intervenire sul pregresso. Perchè ”non è che le leggi sono sacre”, come ha sottolineato la stessa Fornero con Iovene. Peccato che a pagare per questa insacralità del passato siano i pensionandi di oggi.L’inchiesta di Report ha toccato tre punti della riforma: gli esodati, le pensioni dei più giovani (per cui si è fatta la riforma, dice il ministro) e i ricongiungimenti di chi ha spostato la pensione da un ente all’altro:

Ci sono i giovani che adesso iniziano a lavorare con stipendi bassi, e per maturare un anno i contributi dovranno lavorarne due. Quelli che devono ricongiungere più contributi e scoprono che l’INPS gli chiede cifre improponibili in alternativa devono accettare una pensione al limite dell’indigenza. Parliamo di migliaia di persone ma nessuno sa esattamente quanti siano. E poi ci sono tutti quelli che, con il benestare del governo, hanno firmato con la loro azienda un accordo per l’uscita dal lavoro. Siccome l’età si è spostata in avanti, adesso si ritrovano senza stipendio, senza incentivo, senza pensione. Tra esodati e mobilitati parliamo di 350.000 persone.

Sostiene la Fornero che non dobbiamo dimenticarci da dove venivamo e cosa abbiamo rischiato:

“Mi sforzo di far capire che c’è molto “per”, molto “a favore” di quello che non vedete che è l’allontanamento dal baratro: stavamo correndo un grosso rischio tutti e non è che anche i redditi mediobassi erano esenti da questo rischio. Aver ridotto fortemente questo rischio è qualcosa che è “per” il Paese non è “contro”.”

Vero: ma chi pagherà per le caramelle che si sono distribuite nel passato (la Gabanelli ha ricordato la campagna elettorale del governo Rumor nel 1973, con le pensioni nel pubblico a 14 anni, alzate da Amato nel 1992 a 20 anni)? Chi pagherà per il sistema dei vitalizi (sia per gli ex parlamentari che nelle regioni, un sistema in cui lo stato perde), per le pensioni d’oro (Amato, Dini, Sentinelli ex manager Telecom)? A loro, le caramelle continuano ad essere distribuite: tutto questo è equo? Tra l’altro pare che tutti quelli che si sono occupati di riformare le pensioni, si siano messi prima sistemate le loro. D’Antoni ex cisl, in pensione a 55 anni dopo 40 anni di contributi da professore. Amato in pensione a 60 anni, come Brunetta e Fioroni. Dini, autore della riforma del 1995, con doppia pensione dalla Banca d’Italia e dallo stato (40000 euro, ma sono lordi specifica). Cesare Damiano, autore della riforma sulle pensioni dei liberi professionisti non iscritti agli ordini, in pensione dopo 39 anni di contributi.I vitalizi oggi, sono caramelle un pò meno dolci: dopo 5 anni di attività parlamentare, si percepiranno 1000 euro di pensione: per arrivare a questa cifra il parlamentare verserà al fondo 4000 euro, lo stato cioè noi altri 1000.I fondi dei precari e la gestione separata dell’Inps. Sempre nell’inps confluiscono i fondi per le pensioni future dei precari (e il fondo è in attivo, visto che pochi precari riscuotono pensione ed è in comune col fondo da cui escono le pensioni d’oro) come anche quello dei liberi professionisti non appartenenti ad un ordine (come i consulenti, i pubblicitari, gli informatici, i traduttori, i ricercatori, i designer, i tributaristi, i videomakers).

La riforma è stata pensata per dare la possibilità di una pensione anche a chi entra ora nel mondo del lavoro (che dovrebbe prendere una pensione in base a quanto ha versato): ma la realtà è molto meno rosea. Grazie proprio alla riforma Damiano, pagano cifre considerevoli alla cassa, quasi il 40% il primo anno e il 27 % negli anni successivi. Siccome gli stipendi italiani sono quello che sono, molti di questi professionisti negli anni in cui non riescono a lavorare (per una malattia, per la crisi) devono poi stipulare un mutuo. Col rischio di non riuscire più a recuperare i soldi alla fine, come se non avessero mai lavorato nella vita:

SUSANNA BOTTA – INTERPRETE Poi quell’anno io per pagare l’INPS, ho dovuto contrarre un mutuo, cioè io ho contratto un mutuo solo per pagare INPS. Eccola qua. Quindi, complessivamente la cartella è di 27.840,32; di queste 27 mila, almeno 7 – 8 mila euro sono di INPS. Io mi sono fatta fare l’anno scorso un calcolo dal patronato, mi hanno fatto una simulazione della mia pensione. É stato calcolato che io prenderò 735 euro lorde. Il che significa nette 550 – 600 euro, quando la pensione sociale oggi è 550 euro. Quindi io in questi anni, mi sto riempiendo di debiti per pagare l’INPS e alla fine della fiera, io avrò gli stessi soldi che avrei se non avessi mai lavorato.

Inoltre i pensionandi per la gestione separata possono andare in pensione solo quando maturano un importo di 650 euro (come la sociale): chi ne matura di meno, deve aspettare i 70 anni, come il ministro.

Gabanelli:

i giovani che versano alla gestione separata dell’INPS per maturare 1 anno ai fini pensionistici devono avere uno stipendio annuo non al di sotto dei 16.000 euro lordi. Molti di loro guadagnano molto meno. Questo vuol dire che lavori due anni per maturarne uno. Comunque le casse previdenziali sono 24 e non ce n’è una uguale all’altra. All’INPS se sei un dipendente versi il 33%, se sei un libero professionista il 27,70, se sei un muratore il 45, nelle altre casse invece da un minimo del 10 fino ad un massimo del 20%. Poi ci sono i giovani avvocati, ingegneri, architetti quelli che cominciano a lavorare che guadagnano poco, che stanno sotto i 16.000 euro. A loro le loro casse dicono – potete non versare nulla, perché vi tuteliamo lo stesso -. Gli avvocati notoriamente non vanno mai in pensione ma a questo punto arriva l’INPS a cui non piace agevolare i giovani.

Per una legge retroattiva di Tremonti del 2010 devono versare i fondi all’inps anche i giovani avvocati che versavano solo alla cassa separata dell’inps

A giugno del 2010 dentro la finanziaria Tremonti sono finite due norme retroattive e non modificate dal ministro Fornero, che stanno togliendo il sonno a migliaia di persone. La prima: “sei un libero professionista e versi alla gestione separata dell’INPS? Bene dovevi versare anche alla tua cassa! Sanzione. La tua cassa ti dice “puoi non pagare perché stai guadagnando poco e quindi io ti tutelo lo stesso”. L’INPS dice “sei un evasore, dovevi versare a me”.

Iovene ha raccontato poi dei contributi silenti (versati ma non riscossi), deicattivi investimenti di alcuni fondi , come quello degli psicologi. Soldi investiti in immobili che oggi devono essere venduti per fare soldi, mettendo per strada altre persone che non possono sottoscrivere mutui per riscattare la casa. I ricongiungimenti delle pensioni, di chi passava dal pubblico al privato:

Chi negli anni successivi è passato dal pubblico al privato, anche non per sua volontà, ma perché il comune per esempio ha esternalizzato la tua scrivania, quindi tu hai mantenuto lo stesso stipendio e la stessa mansione, ora per prendere una pensione unica devi ricongiungere. Per fare questa operazione l’INPS arriva a chiedere fino a 300.000 euro. Questo per effetto di una norma infilata nella famosa finanziaria Tremonti di giugno del 2010. L’anno scorso si sono accorti che era sbagliata, avrebbero dovuto annullarla, il ministro Fornero l’ha confermata perché lei dice: è giusta ed equa.

 
Qui trovate il pdf della puntata.

Lacrime di coccodrillo”: cosìla Camussoha definito il rammarico della Fornero perché la sua controriforma “non è condivisa da tutti”,cioè perché qualcuno ancora si ostina a non pensarla come lei. Non sappiamo se madama Fornero sia un coccodrillo. Ma, se lo è, trattasi di esemplare nuovo, geneticamente modificato: il coccodrillo che piange prima. Il 18 dicembre, un mese dopo le sue lacrime in favore di telecamera,la Fornerodisse al Corriere: “L’articolo 18 non è un totem” (forse voleva dire tabù). Poi, di fronte alle prevedibili polemiche,ingranò la retromarcia: “Non avevo e non ho in mente nulla che riguardi in modo particolare l’art. 18. Sono stata ingenua, i giornalisti sono bravissimi a tendere trappole. Vogliamo lasciarlo stare questo art.18? Io son pronta a dire che neanche lo conosco, non l’ho mai visto”. L’8 gennaio Monti smentì la retromarcia:“Niente va considerato un tabù. In questo senso il ministro Fornero ha citato l’art.18”. Il 30 gennaiola Fornerosmentì la smentita: “L’art. 18 non è preminente, ma non dev’essere un tabù”. E via a sproloquiare sul “modello tedesco”: quello che prevede l’intervento del giudice per ogni licenziamento. Invece la controriforma Foriero esclude dal reintegro giudiziario i licenziamenti per motivi economici, anche se camuffano quelli disciplinari e discriminatori. È così, tra una bugia e l’altra, che s’è svolta tutta la trattativa su un non-problema, “non preminente”, “mai visto”: infatti alla fine l’art. 18 esaurisce praticamente l’intera “riforma del mercato del lavoro”. Il resto è fuffa, anzi truffa. Monti dice che l’art. 18 frena gli investimenti esteri. Ma l’ha subito sbugiardato persino il neo presidente di Confindustria, Squinzi: “In linea generale non credo sia l’art.18 abloccare lo sviluppo del Paese. Le urgenze sono altre: burocrazia, mancanza di infrastrutture, costi eccessivi dell’energia,criminalità”. Per Napolitano la “riforma è ineludibile per adeguarsi alla legislazione dell’Europa”. Monti aggiunge che, se avesse stralciato l’articolo 18 dalla“riforma”, “l’Europa non avrebbe capito”. E allora perché l’Europa capisce benissimola Germania, che consente a ogni licenziato, per qualunque motivo, di appellarsi al giudice che può decidere sempre fra l’indennizzo e il reintegro? Sul Corriere, Ferruccio de Bortoli trova “inquietanti” i “toni apocalittici di molti commenti” che “descrivono un paese irreale”,“tradiscono una visione novecentesca, ideologica e da lotta di classe, che non corrisponde più alla realtà della stragrande maggioranza dei luoghi di lavoro. Dipingono gli imprenditori (che hanno le loro colpe)come un branco i lupi assetati che non aspetta altro se non licenziare migliaia di dipendenti”. Potrebbe chiedere informazioni al suo principale azionista,la Fiat, che a Melfi ha cacciato tre lavoratori solo perché facevano i sindacalisti e a Pomigliano richiama al lavoro solo i cassintegrati non iscritti alla Cgil, facendo carta straccia della Costituzione e dello Statuto dei lavoratori. Poi de Bortoli violenta due volte la logica,usando i numeri bassissimi di licenziati reintegrati per dimostrare che la controriforma dell’art. 18 non fa male a nessuno. È vero che “solo l’1% delle pratiche di licenziamento gestite dalla sola Cgil tra il 2007 e il 2011è sfociato in riassunzioni o reintegri”: ogni anno i giudici si occupano di 6 mila licenziati e ne reintegrano solo 60. Ma questo dimostra l’opposto di quel che vuol sostenere de Bortoli. E cioè: l’art. 18 è un argine fondamentale contro i licenziamenti ingiusti,che con la controriforma saranno molti di più; ed è falso che oggi i giudici impediscano alle aziende di licenziare in caso di necessità. Ergo non c’è alcun motivo di toccare l’articolo 18. E quanti lo vogliono stravolgere non sono mossi da ragioni economico-produttive, cioè tecniche. Ma politiche o,come direbbe de Bortoli, ideologiche. Ecco, per favore: ci risparmino almeno le balle.

(Marco Travaglio).
Da Il Fatto Quotidiano del 25/03/2012.

Chiara Saraceno: «Monti sia coerente.

O tratta con tutti o con nessuno».

25/03/2012 di triskel182

La sociologa: «Si bandisce la concertazione coi sindacati ma si accettano veti da notai e farmacisti. Questa riforma serve a poco, addirittura inutile per i giovani e le donne»

Mi ha colpito molto un’espressione usata da Monti, ovvero che il governo non vuole la concertazione, come se la concertazione fosse un inciucio. L’inciucio il governo e il Parlamento lo hanno fatto sulle liberalizzazioni con i tassisti, i farmacisti, le varie lobby. Quando si dice, poi, che i sindacati non devono avere potere di veto è giusto, ma poi non si dovrebbe permettere che lo abbia Mediaset sulle frequenze o la Chiesa Cattolica su molte altre questioni». Professoressa Saraceno, il governo dei tecnici manda in pensione solo la concertazione. Dicono sia un elemento di modernità… «Pensare che i sindacati vanno solo consultati e poi si decide da soli, rischia di mutare radicalmente i rapporti di potere tra soggetti sociali producendo forti squilibri. Si può sostenere che sono poco rappresentativi, ma allora i tavoli vanno allargati ad altri soggetti, non chiusi. Concertare significa tentare di raggiungere un accordo, è fondamentale in una democrazia. Non si può parlare di modello tedesco e poi di inciucio: in Germania la concertazione e la cogestione sono regole, modelli». La modifica dell’articolo 18 è il simbolo di questo nuovo modo di trattare. Ma il governo sostiene che sia solo una parte della riforma e nemmeno la più importante. È d’accordo? «È una parte, ma condiziona tutto il resto. L’articolo 18 è una questione simbolica soprattutto per il governo, che ha voluto portarla a casa ad ogni costo. A rischio di fare un pasticcio, di tirarsi la zappa sui piedi, il governo ha voluto modificare a tutti i costi i rapporti di forza tra i singoli lavoratori e datori di lavoro, indebolendo ulteriormente i primi, togliendo il potere deterrente che ha quella norma. Questo non credo che produrrà ondate di licenziamenti, ma di sicuro creerà un contenzioso giudiziario fortissimo. In questo è stato il governo a dimostrarsi ideologico». Elsa Fornero ha sempre parlato di giovani. La riforma li tutela realmente di più? «Solo parzialmente. C’è qualche tutela in più, come l’attenzione agli abusi su co.co.pro e partite Iva. Ma la gran parte delle nuove norme non riguarda i trentenni, la categoria cioè più in difficoltà oggi. Il contratto di apprendistato potrà favorire i giovani sotto i trentenni che entreranno nel mondo del lavoro, ma non chi ha 30 anni e più. Per quanto riguarda gli ammortizzatori si parlava di universalità, ma c’è solo un piccolo allargamento perché si lascia come requisito le 52 settimane di lavoro nel biennio e i 2 anni di anzianità di contribuzione. Per loro ci sarebbe il mini Aspi, ma è la solita mania italiana di prevedere tanti istituti ad hoc, come la disoccupazione a requisiti ridotti in agricoltura o nell’edilizia. Sarebbe stato meglio prevedere una sola misura, modulata secondo l’anzianità contributiva, come negli altri Paesi. In ogni caso continuano ad essere esclusi i co.co. pro. Va poi sottolineato che tutte queste modifiche non produrranno un solo posto di lavoro». L’altro cavallo di battaglia di Fornero è il lavoro femminile. Qua la riforma produce più risultati? «Ancora meno. La norma sulle dimissioni in bianco è importante, ma è un atto dovuto, di reintrodurre quei controlli che erano stati cancellati sciaguratamente dal governo Berlusconi. Sul resto non vedo risultati. I problemi dell’occupazione femminile sono la scarsa domanda di lavoro e la conciliazione con la vita familiare. E non sono stati affrontati». E i congedi di paternità? Quelli sono positivi, no? «Una cosa carina, niente più. Se si vuole che i padri condividano la cura dei figli, tre giorni non bastano. Io avrei chiesto di pagare di più i congedi, quella sarebbe stata una svolta. Oggi in Italia i genitori hanno 10 mesi di congedo dopo la maternità. I primi sei mesi sono pagati al 30%, gli altri quattro non lo sono affatto. E non mi si venga a dire che è un passo avanti nella verso la parità. Lo sarebbe solo se oltre alla quota riservata (10 mesi divisibili fra i due genitori) che abbiamo in Italia, si alzasse il livello di copertura dello stipendio almeno al 50%, come chiede l’Unicef». C’è poi il voucher per il baby-sitting… «La norma non è chiara, ma comunque, incoraggiando il ritorno al lavoro della donna al più presto, va in direzione opposta rispetto, ancora una volta, alla Germania, l’ultimo Paese avanzato ad adottare una normativa che invece consente ai genitori a stare, eventualmente alternandosi, con il figlio per tutto il primo anno di vita. In più l’idea del baby sitting va contro il principio che i servizi per l’infanzia devono essere strumenti educativi. In Italia sono troppo pochi, ma hanno una grande tradizione di eccellenza». Bisogna però riconoscere che tutta questa riforma è fatta senza risorse. Dove si potevano trovare? «A parte i giusti e autorevoli pareri sul rischio che continuando a tagliare non si potrà crescere, io avrei utilizzato le poche risorse disponibili per creare un po’ di lavoro per giovani e donne, producendo coesione sociale. E il modo migliore era investire sulla riqualificazione ambientale ed urbana e sui servizi alla persona. E non lo si è fatto per niente».

Da L’Unità del 25/03/2012.

25/03/2012 di triskel182

Se vi piacciono i testacoda, se avete una passione per gli autogol e provate ammirazione per l’autolesionismo, le argomentazioni degli smantellatori dell’articolo 18 vi suoneranno divertenti. Impagabile il professor Monti: fare una legge e dire mentre la si fa «Vigileremo sugli abusi», significa sapere che ci saranno abusi. E’ come se il chirurgo che opera un paziente e dicesse al suo staff: «Mi raccomando, delicatezza, poi quando dite ai parenti che è morto». Il presidente della Repubblica, da primo sostenitore del governo Monti (più di certi ministri, a dar retta alle cronache), difende a spada tratta la riforma, e nel contempo dice che il problema non è l’articolo 18, ma «il crollo di determinate attività produttive». Che crollano perché le amministrazioni non pagano le imprese, perché i picciotti ti taglieggiano, perché i politici chiedono mazzette, perché le sentenze si aspettano per anni. Di leggi su queste cose non se ne vedono, e sull’articolo 18 invece sì. Saranno anche professori, ma non di logica. Ferruccio De Bortoli sul Corriere rimprovera (proprio a noi del manifesto, wow, siamo famosi!) «Una ripetizione logora di schemi mentali del passato, il tentativo di creare un solco ideologico». E perché? Perché pensiamo, e scriviamo, che con una legge che rende facili i licenziamenti, gli imprenditori licenzieranno più facilmente. Siamo proprio scemi: pensiamo che con una legge che abolisce le strisce pedonali ci saranno più pedoni investiti. Ma come ci viene in mente! Ideologici, eh! Nel frattempo, il Corriere, che è poco ideologico, mette a pagina 53 la sentenza sugli operai Fiom della Fiat di Melfi, reintegrati dalla magistratura, che con la nuova legge sarebbero disoccupati «legali». Insomma: cari imprenditori, vi facciamo una legge per licenziare, ma voi, mi raccomando, non usatela troppo. Ci appelliamo al vostro buon cuore. Parafrasando Jessica Rabbit, quello schianto di cartoon: «I padroni non sono cattivi, è che quelli del manifesto li disegnano così!».

Da Il Manifesto del 25/0372012.

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Corriere della Sera, 14 novembre 1974

COS’E’ QUESTO GOLPE? IO SO        

di Pier Paolo Pasolini

Io so. Io so i nomi dei responsabili di quello che viene chiamato “golpe” (e che in realtà è una serie di “golpe” istituitasi a sistema di protezione del potere). Io so i nomi dei responsabili della strage di Milano del 12 dicembre 1969. Io so i nomi dei responsabili delle stragi di Brescia e di Bologna dei primi mesi del 1974. Io so i nomi del “vertice” che ha manovrato, dunque, sia i vecchi fascisti ideatori di “golpe”, sia i neo-fascisti autori materiali delle prime stragi, sia infine, gli “ignoti” autori materiali delle stragi più recenti. Io so i nomi che hanno gestito le due differenti, anzi, opposte, fasi della tensione: una prima fase anticomunista (Milano 1969) e una seconda fase antifascista (Brescia e Bologna 1974). Io so i nomi del gruppo di potenti, che, con l’aiuto della Cia (e in second’ordine dei colonnelli greci della mafia), hanno prima creato (del resto miseramente fallendo) una crociata anticomunista, a tamponare il ’68, e in seguito, sempre con l’aiuto e per ispirazione della Cia, si sono ricostituiti una verginità antifascista, a tamponare il disastro del “referendum”. Io so i nomi di coloro che, tra una Messa e l’altra, hanno dato le disposizioni e assicurato la protezione politica a vecchi generali (per tenere in piedi, di riserva, l’organizzazione di un potenziale colpo di Stato), a giovani neo-fascisti, anzi neo-nazisti (per creare in concreto la tensione anticomunista) e infine criminali comuni, fino a questo momento, e forse per sempre, senza nome (per creare la successiva tensione antifascista). Io so i nomi delle persone serie e importanti che stanno dietro a dei personaggi comici come quel generale della Forestale che operava, alquanto operettisticamente, a Città Ducale (mentre i boschi italiani bruciavano), o a dei personaggio grigi e puramente organizzativi come il generale Miceli. Io so i nomi delle persone serie e importanti che stanno dietro ai tragici ragazzi che hanno scelto le suicide atrocità fasciste e ai malfattori comuni, siciliani o no, che si sono messi a disposizione, come killer e sicari. Io so tutti questi nomi e so tutti i fatti (attentati alle istituzioni e stragi) di cui si sono resi colpevoli. Io so. Ma non ho le prove. Non ho nemmeno indizi. Io so perché sono un intellettuale, uno scrittore, che cerca di seguire tutto ciò che succede, di conoscere tutto ciò che se ne scrive, di immaginare tutto ciò che non si sa o che si tace; che coordina fatti anche lontani, che mette insieme i pezzi disorganizzati e frammentari di un intero coerente quadro politico, che ristabilisce la logica là dove sembrano regnare l’arbitrarietà, la follia e il mistero. Tutto ciò fa parte del mio mestiere e dell’istinto del mio mestiere. Credo che sia difficile che il mio “progetto di romanzo”, sia sbagliato, che non abbia cioè attinenza con la realtà, e che i suoi riferimenti a fatti e persone reali siano inesatti. Credo inoltre che molti altri intellettuali e romanzieri sappiano ciò che so io in quanto intellettuale e romanziere. Perché la ricostruzione della verità a proposito di ciò che è successo in Italia dopo il ’68 non è poi così difficile. Tale verità – lo si sente con assoluta precisione – sta dietro una grande quantità di interventi anche giornalistici e politici: cioè non di immaginazione o di finzione come è per sua natura il mio. Ultimo esempio: è chiaro che la verità urgeva, con tutti i suoi nomi, dietro all’editoriale del “Corriere della Sera”, del 1° novembre 1974. Probabilmente i giornalisti e i politici hanno anche delle prove o, almeno, degli indizi. Ora il problema è questo: i giornalisti e i politici, pur avendo forse delle prove e certamente degli indizi, non fanno i nomi. A chi dunque compete fare questi nomi? Evidentemente a chi non solo ha il necessario coraggio, ma, insieme, non è compromesso nella pratica col potere, e, inoltre, non ha, per definizione, niente da perdere: cioè un intellettuale. Un intellettuale dunque potrebbe benissimo fare pubblicamente quei nomi: ma egli non ha né prove né indizi. Il potere e il mondo che, pur non essendo del potere, tiene rapporti pratici col potere, ha escluso gli intellettuali liberi – proprio per il modo in cui è fatto – dalla possibilità di avere prove ed indizi. Mi si potrebbe obiettare che io, per esempio, come intellettuale, e inventore di storie, potrei entrare in quel mondo esplicitamente politico (del potere o intorno al potere), compromettermi con esso, e quindi partecipare del diritto ad avere, con una certa alta probabilità, prove ed indizi. Ma a tale obiezione io risponderei che ciò non è possibile, perché è proprio la ripugnanza ad entrare in un simile mondo politico che si identifica col mio potenziale coraggio intellettuale a dire la verità: cioè a fare i nomi. Il coraggio intellettuale della verità e la pratica politica sono due cose inconciliabili in Italia. All’intellettuale – profondamente e visceralmente disprezzato da tutta la borghesia italiana – si deferisce un mandato falsamente alto e nobile, in realtà servile: quello di dibattere i problemi morali e ideologici. Se egli vien messo a questo mandato viene considerato traditore del suo ruolo: si grida subito (come se non si aspettasse altro che questo) al “tradimento dei chierici” è un alibi e una gratificazione per i politici e per i servi del potere. Ma non esiste solo il potere: esiste anche un’opposizione al potere. In Italia questa opposizione è così vasta e forte da essere un potere essa stessa: mi riferisco naturalmente al Partito comunista italiano. È certo che in questo momento la presenza di un grande partito all’opposizione come è il Partito comunista italiano è la salvezza dell’Italia e delle sue povere istituzioni democratiche. Il Partito comunista italiano è un Paese pulito in un Paese sporco, un Paese onesto in un Paese disonesto, un Paese intelligente in un Paese idiota, un Paese colto in un Paese ignorante, un Paese umanistico in un Paese consumistico. In questi ultimi anni tra il Partito comunista italiano, inteso in senso autenticamente unitario – in un compatto “insieme” di dirigenti, base e votanti – e il resto dell’Italia, si è aperto un baratto: per cui il Partito comunista italiano è divenuto appunto un “Paese separato”, un’isola. Ed è proprio per questo che esso può oggi avere rapporti stretti come non mai col potere effettivo, corrotto, inetto, degradato: ma si tratta di rapporti diplomatici, quasi da nazione a nazione. In realtà le due morali sono incommensurabili, intese nella loro concretezza, nella loro totalità. È possibile, proprio su queste basi, prospettare quel “compromesso”, realistico, che forse salverebbe l’Italia dal completo sfacelo: “compromesso” che sarebbe però in realtà una “alleanza” tra due Stati confinanti, o tra due Stati incastrati uno nell’altro. Ma proprio tutto ciò che di positivo ho detto sul Partito comunista italiano ne costituisce anche il momento relativamente negativo. La divisione del Paese in due Paesi, uno affondato fino al collo nella degradazione e nella degenerazione, l’altro intatto e non compromesso, non può essere una ragione di pace e di costruttività. Inoltre, concepita così come io l’ho qui delineata, credo oggettivamente, cioè come un Paese nel Paese, l’opposizione si identifica con un altro potere: che tuttavia è sempre potere. Di conseguenza gli uomini politici di tale opposizione non possono non comportarsi anch’essi come uomini di potere. Nel caso specifico, che in questo momento così drammaticamente ci riguarda, anch’essi hanno deferito all’intellettuale un mandato stabilito da loro. E, se l’intellettuale viene meno a questo mandato – puramente morale e ideologico – ecco che è, con somma soddisfazione di tutti, un traditore. Ora, perché neanche gli uomini politici dell’opposizione, se hanno – come probabilmente hanno – prove o almeno indizi, non fanno i nomi dei responsabili reali, cioè politici, dei comici golpe e delle spaventose stragi di questi anni? È semplice: essi non li fanno nella misura in cui distinguono – a differenza di quanto farebbe un intellettuale – verità politica da pratica politica. E quindi, naturalmente, neanch’essi mettono al corrente di prove e indizi l’intellettuale non funzionario: non se lo sognano nemmeno, com’è del resto normale, data l’oggettiva situazione di fatto. L’intellettuale deve continuare ad attenersi a quello che gli viene imposto come suo dovere, a iterare il proprio modo codificato di intervento. Lo so bene che non è il caso – in questo particolare momento della storia italiana – di fare pubblicamente una mozione di sfiducia contro l’intera classe politica. Non è diplomatico, non è opportuno. Ma queste categorie della politica, non della verità politica: quella che – quando può e come può – l’impotente intellettuale è tenuto a servire. Ebbene, proprio perché io non posso fare i nomi dei responsabili dei tentativi di colpo di Stato e delle stragi (e non al posto di questo) io non posso pronunciare la mia debole e ideale accusa contro l’intera classe politica italiana. E io faccio in quanto io credo alla politica, credo nei principi “formali” della democrazia, credo nel Parlamento e credo nei partiti. E naturalmente attraverso la mia particolare ottica che è quella di un comunista. Sono pronto a ritirare la mia mozione di sfiducia (anzi non aspetto altro che questo) solo quando un uomo politico – non per opportunità, cioè non perché sia venuto il momento, ma piuttosto per creare la possibilità di tale momento – deciderà di fare i nomi dei responsabili dei colpi di Stato e delle stragi, che evidentemente egli sa, come me, non può non avere prove, o almeno indizi. Probabilmente – se il potere americano lo consentirà – magari decidendo “diplomaticamente” di concedere a un’altra democrazia ciò che la democrazia americana si è concessa a proposito di Nixon – questi nomi prima o poi saranno detti. Ma a dirli saranno uomini che hanno condiviso con essi il potere: come minori responsabili contro maggiori responsabili (e non è detto, come nel caso americano, che siano migliori). Questo sarebbe in definitiva il vero Colpo di Stato.

Una carta del mondo che non includa l’Utopia non è degna d’uno sguardo,

perché esclude quell’unico Paese dove l’umanità vuol sempre sbarcare.

E quando vi sbarca, si guarda attorno.

Poi, intravedendo una contrada ancora più bella si rimette in mare.

Il progresso è la realizzazione delle utopie.”

Oscar Wilde

RITORNO AL PASSATO: IL NUOVO «REGIME DI FABBRICA» (Guido Viale).

23/03/2012 di triskel182

«Appena passa l’abolizione dell’art. 18, sei fuori!» L’azzeramento dell’articolo 18 dello Statuto dei lavoratori non è una misura per rendere flessibile il mercato del lavoro, ma per rendere rigidi (fino al parossismo) il regime di fabbrica e la stretta sui ritmi di lavoro. Certamente nei prossimi mesi e anni ci saranno, uno a uno, o, meglio, quattro a quattro ogni quattro mesi, decine di migliaia di licenziamenti individuali per “motivi economici”. Sappiamo già chi verrà colpito, perché da qualche mese i capi girano nei reparti e minacciano i delegati non allineati e gli operai che resistono all’intensificazione del lavoro, annunciando loro che, «appena passa l’abolizione dell’art. 18, sei fuori!». Così, se alla manifestazione della Fiom del 24 febbraio, su 50 mila partecipanti, almeno 40 mila erano lavoratori e lavoratrici della Fiom, possiamo essere sicuri, con uno scarso margine di errore, che, al ritmo di 12 all’anno per azienda, quei lavoratori verranno espulsi dal loro posto di lavoro ottenendo con il tempo quello che Marchionne ha realizzato in un colpo solo, cambiando nome allo stabilimento di Pomigliano e tenendovi fuori tutti i tesserati Fiom.

E lo stesso avverrà con altre migliaia di lavoratori, già ben identificati, nella maggior parte delle aziende di altri settori. Se Barozzino, Pignatelli e La Morte, i tre operai della Sata di Melfi licenziati dalla Fiat per rappresaglia contro uno sciopero, ci hanno messo più di un anno per dimostrare le loro ragioni di fronte ai giudici e, nonostante l’ordine di reintegro, non viene loro concesso di rientrare in fabbrica, possiamo immaginare che cosa succederà con le decine di migliaia di lavoratori già in lista per essere licenziati individualmente “per motivi economici”. I quali, per dimostrare di essere stati oggetto di una discriminazione, e non di una esigenza “economica”, dovranno andare a cercare tra i loro compagni di lavoro qualcuno disposto a testimoniare in loro favore, sotto la minaccia di entrare così anche lui, nel giro dei successivi quattro mesi, nella lista degli esuberi per motivi “economici”. Così diverse decine di migliaia di lavoratori andranno ad aggiungersi, grazie all’azzeramento dell’articolo 18, all’esercito dei disoccupati senza reddito che i tagli di bilancio, la riforma degli ammortizzatori sociali a costo zero e le crisi aziendali stanno moltiplicando nel nostro paese.

Con in più il fatto che, se è quasi impossibile per un giovane trovare oggi un posto di lavoro, per i lavoratori e le lavoratrici di una certa età sarà ancora più difficile, e per quelli usciti dal loro impiego con un licenziamento individuale – cioè con le stimmate di una espulsione discriminatoria – il licenziamento equivarrà all’iscrizione in una lista di proscrizione. È una cosa che le persone di una certa età ricordano bene quando alla Fiat, prima dell’autunno caldo di quarant’anni fa, imperversava il regime imposto da Vittorio Valletta. Siamo ritornati là; anzi peggio, perché allora l’economia tirava mentre adesso non c’è alcuna speranza di tornare in tempi accettabili a una qualsiasi forma di ripresa della crescita. E soprattutto dell’occupazione. Ma l’uscita dalle aziende di alcune decine di lavoratori con posto fisso non apre certo le porte a nuove assunzioni, come è ovvio a qualsiasi persona che non sia in malafede. Semplicemente chiude per sempre davanti ai lavoratori licenziati le porte di un altro impiego.

Perché la domanda di lavoro non c’è e non saranno certo le politiche economiche di Monti e della Bce a crearla (basta vedere quello che la Bce ha combinato in Grecia e in Portogallo, paesi solo di un anno davanti a noi nella corsa verso il disastro). Ma quei lavoratori licenziati non avranno più né cassa integrazione (né ordinaria, né straordinaria, né in deroga), né mobilità, né “scivolo” verso il prepensionamento; solo una modesta somma di denaro e un anno di disoccupazione. Poi si ritroveranno per strada senza reddito e con nessuna possibilità di un nuovo lavoro: nemmeno d un lavoro precario: perché se mai ci sarà da assumere qualcuno in un call-center o in una cooperativa di facchinaggio, non andranno certo ad assumere un 40-50enne licenziato, quando è e sarà pieno di giovani più adatti a lavori del genere. Così, nel giro di qualche anno, assisteremo a questo rovesciamento dei rapporti intergenerazionali: se fino ad oggi molti dei giovani assunti in qualche forma di lavoro precario e intermittente hanno potuto contare sulla casa, la pensione, lo stipendio fisso o qualche altra forma di aiuto da parte dei loro genitori, nei prossimi anni saranno i lavoratori anziani (cioè ultracinquantenni) senza pensione né salario a dover contare sui redditi saltuario dei loro figli precari per sopravvivere.

Ma se questo è il panorama che ci aspetta fuori delle fabbriche e delle aziende, quello che si prospetta al loro interno è anche peggio. Perché là si vivrà sotto il ricatto permanente del licenziamento individuale “per motivi economici”; e se questo potrà colpire solo pochi lavoratori per volta – non più di dodici all’anno per azienda – funzionerà perfettamente da deterrente per tutti gli altri. Perché, con poche eccezioni, le imprese e l’imprenditoria italiana ormai impegnate a difendere i loro sempre più risicati margini di competitività contando esclusivamente sull’intensificazione dei ritmi di lavoro e la compressione dei salari, non hanno certo la cultura aziendale e la lungimiranza per farsi sfuggire un’occasione del genere: non avrebbero insistito tanto per l’abrogazione dell’art. 18. Posto fisso vuol dire accumulo di esperienza, quel patrimonio aziendale – a patto di saperlo e volerlo valorizzare – che tante imprese italiane hanno sacrificato ai vantaggi offerti dall’ingaggio del lavoro precario e malpagato.

L’azzeramento dell’articolo 18 è un invito a continuare su questa strada, perché rinunciare all’esperienza dei lavoratori anziani vuol dire ricominciare ogni volta da capo e mantenersi ai livelli tecnologici più bassi. Così, quello che non sono riusciti a fare Berlusconi, Maroni e Sacconi in 17 anni, Monti lo sta portando a termine in pochi mesi. Il piatto è servito e quello che resta da fare, prima che passi in Parlamento il cosiddetto decreto sul mercato del lavoro – in realtà, sulla disciplina di fabbrica e l’ampliamento dell’ “esercito industriale di riserva” – ma anche dopo, se sarà approvato, è continuare ad opporsi senza se e senza ma. La posta in gioco e troppo alta e anche coloro che in azienda non ci sono ancora, non ci sono più, o non ci saranno mai, dovrebbero capirlo e agire di conseguenza. Quale che ne sia l’esito, questa mossa di Monti e Fornero deve diventare per tutti il simbolo dell’ipocrisia, della malafede e della pochezza di questa campagna di governo.

Da Il Manifesto del 23/03/2012.

Articolo 18, Cgil verso sciopero generale L’Idv promette: ‘Vietnam parlamentare’.

21/03/2012 di triskel182

Domani ultimo incontro al ministero. Il segretario del Pd si sfoga: “Non so come faremo, ma non la concludo così. Deve decidere il giudice”. Il sindacato della Camusso: “Agire prima di assistere a espulsioni di massa dalle aziende”. Anche la Lega contro. Napolitano: “L’articolo 18 è solo una parte, ci vuole attenzione”. Il giuslavorista Pessi: “Dubbi sulla costituzionalità”.

Non avrà potere di veto, ma la Cgil ha già messo in moto la macchina della protesta per difendere l’articolo 18 dalle modifiche che il governo ha presentato ieri nell’ultimo incontro con le parti sociali, messo in agenda per domani. Dalle parole del segretario Susanna Camusso dopo il vertice di Palazzo Chigi già si poteva capire, ma la proposta della segreteria del sindacato al direttivo ha messo anche nero su bianco: 16 ore di sciopero, 8 delle quali per uno sciopero generale con manifestazioni territoriali e 8 per le assemblee. Una linea decisa che ha già messo a bollire l’intero centrosinistra e in particolare il Pd che, una volta che il provvedimento sarà in Parlamento, rischia seriamente di spaccarsi. Già ora si registrano le dichiarazioni dei suoi esponenti più o meno in ordine sparso, tra i sostenitori della riforma come il giuslavorista Pietro Ichino e coloro che sostengono una robusta correzione come l’ex ministro del lavoro Cesare Damiano. Una situazione difficile da gestire per il segretarioPierluigi Bersani che, avvicinato dai cronisti, ha risposto solo che a lui non sembra un accordo e che il resto di cosa pensa lo dirà stasera a Porta a Porta, anche se poi si è lasciato andare in Transatlantico: “Io non la concludo così. Non so come faremo, ma io non la concludo così. Non lo faccio, per me è una roba inconcepibile”.

Il progetto di modifica del mercato del lavoro, tuttavia, già da oggi incassa il via libera dal Pdl, dal Terzo Polo e soprattutto l’appoggio dell’Unione Europea: “Ha intenzione di dinamizzare il mercato del lavoro, corrisponde al nostro obiettivo di creare un mercato più dinamico e la sua direzione è degna di sostegno” ha dichiarato il commissario Ue all’occupazione Lazlo Andor, spiegando che la riforma ha una “ambizione notevole”.

La Cgil: “Ci saranno espulsioni di massa”. Ma l’ambizione per la Cgil è sinonimo di azzardo.Maurizio Landini definisce la riforma una follia: “La riforma non riduce la precarietà, non estende gli ammortizzatori, ma rende più facili i licenziamenti – sostiene – La riforma sarà contrastata con ogni mezzo e con ogni forma di protesta democratica nelle fabbriche e nel Paese”. Ancora più chiara l’immagine che offre il segretario confederale (e uno dei “negoziatori” della Cgil al tavolo del governo) Fulvio Fammoni: ”Abbiamo il dovere di portare a casa dei risultati prima che si avvii un biennio di espulsioni di massa nelle aziende”. La Cgil, lei no, non sembra rischiare divisioni interne sulla questione: sono tutti d’accordo, dai metalmeccanici di Landini ai pensionati diCarla Cantone passando per i chimici di Alberto Morselli.

Napolitano: “L’articolo 18 è solo una parte”. Giudizi severi che il presidente della RepubblicaGiorgio Napolitano cerca di ricondurre a più miti consigli. La riforma del mercato del lavoro, dichiara dalle Cinque Terre dove sta visitando le aree alluvionate nell’autunno scorso, “non può essere identificata con la sola modifica dell’articolo 18: per poter dare un giudizio bisogna vedere il quadro di insieme. Tutti sanno che domani ci sarà un incontro per meglio definire le riforme. E quindi è bene attendere il risultato di domani perché c’è una discussione sull’articolo 18 che è una parte, ma non il tutto della riforma. Naturalmente dopo che il governo avrà dato una forma legislativa ai provvedimenti, la parola spetta al Parlamento”. Il capo dello Stato ha invitato tutte le parti alla moderazione spiegando che in queste ore ci deve essere “attenzione e misura nel giudizio da parte di tutti”.

Cisl: “Compromesso onorevole”. Difende le proprie scelte, all’indomani del sì alla riforma, la Cisl di Raffaele Bonanni che parla di “compromesso onorevole”, perché la nuova normativa proposta dal governo “rafforza la protezione anche per i lavoratori” anche nelle aziende con meno di quindici dipendenti (attualmente invece non è specificato, ha spiegato lo stesso Bonanni ieri sera dopo l’incontro con il governo).

I dubbi del Pd. Ma gli occhi sono puntati sul Partito democratico che sull’argomento si è spaccato e che avrà un compito non facile una volta che il provvedimento sarà all’esame dell’Aula. Se Stefano Fassina, responsabile Economia del Pd, paragona Monti a Sacconi e annuncia che sono già in preparazione gli emendamenti, il vicesegretario Gianni Letta esclude che in aula i democratici voteranno contro il provvedimento. In realtà le voci nel Pd contrarie in particolare alle riforme dell’articolo 18 si moltiplicano: “Il punto caldo dell’articolo 18 che non va bene perché è profondamente sbagliato aumentare la possibilità di licenziamento per motivi economici” spiega l’ex ministro del lavoro Cesare Damiano. “Sull’articolo 18 penso che la Cgil abbia ragione” aggiunge Giovanna Melandri. E così, tra gli altri, l’ex ministro Barbara Pollastrini, il presidente della Regione Toscana Enrico Rossi, l’ex segretario della Cisl e dirigente del Pd Sergio D’Antoni. A questo si aggiunge una vera e propria rivolta degli elettori del Pd che su siti, blog e social network minacciano più o meno: “Se votate la riforma, noi non votiamo più voi”.

L’eccezione più chiara resta quella del giuslavorista Pietro Ichino che riconosce addirittura contenuti programmatici del Pd all’interno della riforma: “Vivere questo progetto di riforma dell’articolo 18 come una medicina amara e indigesta da ingerire con il naso tappato da parte del Pd a me sembra molto fuori luogo”.

Bersani: “Va cambiata”. In realtà i dubbi del Pd sono corposi e diffusi. Raggiungono anche lo stesso segretario. Bersani in mattinata sembrava non aver quasi voglia di parlare: “Non so se si può chiamare accordo – ha risposto ai cronisti – Non parlo di lavoro e articolo 18 perché ne parlerò questa sera a Porta a Porta”. Prima di Bruno Vespa hanno potuto le agenzie di stampa che hanno riferito di uno sfogo di Bersani, mentre parlava proprio con Damiano in Transatlantico: “Se devo concludere la vita dando il via libera alla monetizzazione del lavoro io non la concludo così. Non so come faremo, ma io non la concludo così. Non lo faccio, per me è una roba inconcepibile”. Il segretario insiste sul fatto che il reintegro debba essere previsto anche per i licenziamenti per motivi economici. “Chiediamo un passo avanti. Non ci possono essere discriminazioni tra disciplinare e economico” ha continuato. Cioè: deve decidere il giudice se disporre un indennizzo o il reintegro al lavoro. Non solo: servirà lavorare “per accorciare i tempi dei processi” sulla cause di lavoro, che invece il governo ha annunciato di voler inserire nella riforma della giustizia (che avrà percorsi molto meno confortevoli e tempi molto meno rapidi).

A fianco di queste dichiarazioni c’è anche la richiesta del Pd di presentare un disegno di legge e non in un decreto. “Una materia così strutturale e delicata come il mercato del lavoro deve essere affrontata non con un decreto ma con un disegno di legge affinché il parlamento possa discutere – ha spiegato il capogruppo alla Camera Dario Franceschini – Negli ultimi mesi c’è stato un uso dei decreti legge un po’ eccessivo, come se fosse l’unico strumento per approvare le norme necessarie per il nostro Paese”.

La sinistra: “Cambiare”. Di certo c’è che la riforma ha una sua opposizione, in Parlamento e fuori. L’Italia dei Valori, per dire, promette “il Vietnam” in Parlamento: “Diciamo al presidente del Consiglio – avverte Leoluca Orlando, Italia dei Valori – che il partito non starà a guardare e che farà tutto quanto è in suo potere per evitare questo scempio dei diritti. Siamo pronti ad un Vietnam parlamentare e a scendere in piazza con i lavoratori e i disoccupati”. Il leader del partito Antonio Di Pietro insiste: “Il governo e il ministro Fornero possono provare quanto vogliono a nascondersi dietro un dito ma la verità è semplice semplice: la riforma dell’articolo 18 vuol dire licenziamenti facili. Tutto il resto è fumo negli occhi e nemmeno vale la pena di parlarne. Dell’articolo 18 non ci ha mai parlato nessuno, e quando abbiamo chiesto se era un problema hanno sorriso. Che problema volete che sia una norma che impone non più di 50 reintegri l’anno? La verità è che il sistema delle banche europee ha preteso questo scalpo sull’altare del liberismo, ma senza prevedere nessun vantaggio nè per i lavoratori nè per l’economia italiana”.

Da sinistra interviene anche il leader di Sinistra e Libertà Nichi Vendola: ”E’ davvero imbarazzante l’atteggiamento del governo Monti, a fronte di un’Italia che sta vivendo una sofferenza, un disagio straordinario. Di fronte a notizie di suicidi di chi non riesce a trovare lavoro, di fronte alla disperazione di un’intera generazione di ragazzi e ragazze, assediata dalla precarietà. L’unica ossessione del governo Monti è quella di recidere il legame con la nostra cultura democratica. Cancellare l’articolo 18, manipolarlo, deformarlo, significa semplicemente portare lo scalpo della civiltà del lavoro presso i potentati della finanza internazionale”. Insomma: “Un regalo alla destra europea”. Più fine l’annotazione del sindaco di Milano, Giuliano Pisapia: ”Credo che a decidere non sia il governo ma il parlamento”.

La Lega: “Siamo contro”. In Parlamento la proposta del governo avrà contro anche la Lega Nord. Sulla riforma del lavoro “contrasteremo il governo” ha sintetizzato il leader del CarroccioUmberto Bossi. “Noi siamo contro il governo Monti. Qualsiasi cosa faccia la consideriamo sbagliata”. Motto che spetta all’ex ministro Roberto Calderoli sviluppare in un concetto: “Il lavoro non lo si ritrova creando condizioni per licenziare la gente: bisogna creare la ripresa, aumentare i consumi e automaticamente ci sarà anche la richiesta di nuovi posti di lavoro – dichiara a TelePadania subito dopo aver presentato delle proposte di legge in Cassazione – A breve dovremo tornare qui per presentare un’altra proposta”.

No dal sindacato dei funzionari di polizia. In attesa del talk condotto da Vespa una singolare presa di posizione contro la riforma del governo arriva dall’Associazione nazionale dei funzionari di polizia. “Varare una norma che in tema di licenziamento illegittimo non preveda la possibilità di reintegro del lavoratore avrà effetti negativi sull’ordine pubblico”, ha detto in una nota il segretario nazionale Enzo Marco Letizia aggiungendo che “con il solo indennizzo per il lavoratore licenziato ingiustamente passerebbe un messaggio assai negativo, quello che con un po’ di denaro si ha la libertà di togliere illegittimamente il futuro alle persone”.

Il Pdl: “Avanti così”. Una decisa adesione alla riforma arriva invece da destra. “La Cgil non ha diritto di veto ed è un bene che ciò sia emerso. Il confronto con le parti sociali è un dovere. Ma ora è il tempo delle decisioni” dichiara il capogruppo del Pdl in Senato Maurizio Gasparri. “A fronte di questa mediazione i cui riflessi saranno attentamente esaminati, ci sembra una forzatura in larga parte di natura ideologica il dissenso e la radicalizzazione che stanno dando alla questione la Cgil e alcune forze politiche di sinistra e dell’estrema sinistra” rincara il collega alla Camera Fabrizio Cicchitto. “Con questa riforma l’Italia va avanti ed era giusto che andasse avanti perchè si trovava indietro in tutte le classifiche europee e internazionali – ha sottolineato il segretario del partito Angelino Alfano – L’Italia, infatti, stazionava in posti bassi delle classifiche relative all’occupazione giovanile e femminile. Noi difenderemo questa riforma e siamo contenti del fatto che il conto non lo paghino le piccole e medie imprese con l’aumento del costo del lavoro”.

Ecco come cambiano i licenziamenti. Solo indennizzo per i licenziamenti per motivi economici considerati dal giudice illegittimi e scelta del giudice tra reintegro nel posto dl lavoro o indennizzo nei casi di licenziamenti senza giusta causa o giustificato motivo soggettivo (i cosiddetti motivi disciplinari): è questa in sostanza la modifica sostanziale dell’articolo 18 dello statuto dei lavoratori che il Governo si appresta a varare dopo un lungo confronto con le parti sociali. Per i licenziamenti discriminatori invece non cambia nulla. Cambiamenti che coinvolgeranno anche i dipendenti pubblici, secondo il dipartimento della Funzione pubblica. Ecco in sintesi come dovrebbe cambiare il sistema:

Licenziamenti discriminatori: sono nulli indipendentemente dalla motivazione adottata e quindi si considerano come mai effettuati. E’ previsto la reintegrazione nel posto di lavoro (anche per i dirigenti) qualsiasi sia la dimensione dell’azienda e il numero di dipendenti e il risarcimento della retribuzione e dei contributi dal momento del licenziamento a quello della sentenza del giudice. L’onere della prova spetta al lavoratore.

Licenziamenti disciplinari: in caso di licenziamento senza giusta causa (comportamento grave che non consente la prosecuzione del rapporto, come ad esempio un furto o una rissa) o senza giustificato motivo soggettivo (notevole inadempimento degli obblighi contrattuali del lavoratore), il giudice deciderà tra il reintegro nel posto di lavoro o l’indennizzo. L’indennizzo potrà variare tra le 15 e le 27 mensilità, lorde ma comprensive di tredicesima e quattordicesima, in pratica si divide per 12 la Ral (retribuzione annua lorda) e si moltiplica per il numero delle mensilità che saranno assegnate al lavoratore licenziato ingiustamente (l’importo dell’indennizzo terrà conto dell’anzianità aziendale del lavoratore e del comportamento tenuto dalle parti).

Licenziamenti per motivi economici: sono licenziamenti con “ragioni inerenti all’attività produttiva, all’organizzazione del lavoro e al regolare funzionamento di essa”. Nel caso che il giudice rilevi che queste ragioni non ci sono, e quindi il licenziamento sia annullabile e illegittimo disporrà (in luogo della reintegrazione prevista dall’articolo 18 dello statuto dei lavoratori) un importo a titolo di risarcimento del danno in favore del lavoratore fino a un massimo di 27 mensilità (sempre lorde). L’onere della prova nel caso dei licenziamenti economici o disciplinari spetta sempre al datore di lavoro.

“Dubbi di costituzionalità”. C’è anche chi dubita che la riforma dell’articolo 18 possa passare il vaglio della Corte Costituzionale. E’ Roberto Pessi, uno dei più importanti giuslavoristi italiani, pro-rettore alla Luiss di Roma ed ex preside della facoltà di giurisprudenza della stessa università. ”Dubito che questa norma – spiega Pessi – possa passare al vaglio della Corte Costituzionale perchè si pone un problema di comparazione tra gli effetti dei licenziamenti per motivi disciplinari e quelli per motivi economici. A parità di ‘condizione’, ossia di licenziamento, si manifestano infatti effetti diversi per il lavoratore: nel primo caso, laddove il giudice riscontri un comportamento non tanto inadeguato, non sufficientemente manchevole, nel dipendente, questi può avere diritto a una reintegra. Se invece il datore di lavoro, anche in maniera fraudolenta, ‘cessa’ l’attività o la riorganizza per finta e licenzia il dipendente, anche bravo e virtuoso, quest’ultimo non ha mai, in nessun modo diritto a riprendersi il posto di lavoro”. E sempre sui licenziamenti per motivi economici, aggiunge Pessi, “c’è un’altra questione: nel corso del giudizio, si deve stabilire se l’atto è nullo oppure no”. E “ipotesi di nullità – osserva – ci sono ad esempio nel caso in cui, come ha stabilito la Cassazione, l’azienda non abbia fatto tutto il possibile per aver ricollocato al suo interno lo stesso dipendente che vuole licenziare. Bisogna capire dunque se il licenziamento è comunque nullo o se invece rientra comunque nella disciplina dell’articolo 18″.

Da ilfattoquotidiano.it

Parodia magnifica Brazil and Uruguay

Image via Wikipedia

Che stupidi che siamo,

quanti inviti respinti, quanti…

quante frasi non dette,

quanti sguardi non ricambiati…

tante volte la vita ci passa accanto …

e noi non ce ne accorgiamo nemmeno. 

(Le fate ignoranti di Ferzan Ozpetek)

Ieri ho visto l’ultimo film di Ferzan Ozpetek

E’ un film pieno, traboccante……

Come tutti i film di Ozpetek

E come in tutti i suoi film la protagonista è la vita,

è il nostro esserci, è il nostro amare e non amare,

è il nostro rischiare,

è il nostro perdersi consapevolmente,

è il nostro vivere……………….

Terra Santa Libera

Il folle progetto sionista si realizzerá con la pulizia etnica locale e la ricostruzione del tempio sul Monte Moriah

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