Tag Archive: Italia


Spettacolo infinito

Quanti morti oggi? Intanto lo spet­ta­tore mass­me­dia­tico, di fronte alle stragi di migranti nel Medi­ter­ra­neo e — sco­prono adesso — nel cuore d’Europa dalla rotta bal­ca­nica, gira pagina o cam­bia canale per­ché è il solito spet­ta­colo, estre­miz­zato «solo» dal numero delle vit­time che cre­sce ogni giorno di più.

Così, para­dos­sal­mente, men­tre aumenta la tra­ge­dia si dilata la pas­si­vità e l’abitudine alla noti­zia. Del resto sem­pre più acco­mu­nata ad un pro­gramma seriale e rac­con­tata con le moda­lità del rea­lity: ogni canale tv ormai si prende in con­se­gna sotto le tele­ca­mere siglate la sua fami­glia di pro­fu­ghi, la segue fin dove la vuole seguire e poi tanti auguri (senza dire che la mag­gior parte dei dispe­rati non arri­verà a desti­na­zione e allora le tele­ca­mere saranno spente). Sem­bra addi­rit­tura giornalismo-verità, invece altro non è che la macra­bra rie­di­zione di un rea­lity, di un «asso nella mano» gior­na­li­stico. Certo si può per­fino avere l’illusione, guar­dando o rac­con­tando, che quel fram­mento di noti­zia o di imma­gine, siano il solo soste­gno imma­gi­na­rio che pos­siamo dare, almeno in assenza di un inter­vento reale del potere poli­tico che non fa nulla o peg­gio, alle­stendo respin­gi­menti, restrin­gendo diritti d’asilo, sele­zio­nando, anche per nazio­na­lità, pro­fu­ghi sicuri (dalle guerre) e quelli insi­curi (dalla fame), ester­na­liz­zando l’accoglienza in nuovi uni­versi con­cen­tra­zio­nari, cioè tanti campi di con­ce­tra­mento nel Sud del mondo, pre­pa­rando nuove avven­ture belliche.

Ma non è un rea­lity quello che accade sotto i nostri occhi stan­chi. Qui è stra­volto lo stesso prin­ci­pio di realtà e il gior­na­li­smo fin qui rea­liz­zato — tan­to­meno quello embed­ded — non può bastare. Siamo di fronte ad una svolta epo­cale che si con­suma nella tra­ge­dia di cen­ti­naia e cen­ti­naia di milioni di esseri umani, i nuovi dan­nati della terra, in fuga da guerre e mise­ria. E lo spet­ta­colo a lieto fine non c’è. C’è solo la pas­si­vità dila­gante. Da che deriva? Dal sem­plice fatto che ha vinto l’ideologia della guerra uma­ni­ta­ria che, tra gli altri cri­mi­nali effetti col­la­te­rali, non solo assume la guerra come merito ma can­cella le respon­sa­bi­lità dei risul­tati disastrosi.

Invece è nostra la respon­sa­bi­lità di que­sto esodo. Fug­gono dalle nostre guerre e dalla nostra ridu­zione in mise­ria di paesi in realtà ric­chis­simi di mate­rie prime e terra.

Non siamo di fronte a cata­cli­smi natu­rali, sui quali peral­tro comin­ciamo ad indi­vi­duare anche respon­sa­bi­lità spe­ci­fi­che. Per­ché le guerre ame­ri­cane ed euro­pee, deva­stando tre paesi cen­trali dell’area nor­da­fri­cana e medio­rien­tale, nell’ordine tem­po­rale, Iraq, Libia e Siria (senza dimen­ti­care la Soma­lia diven­tata sim­bolo dell’attuale bal­ca­niz­za­zione del mondo) ha pro­vo­cato la can­cel­la­zione di almeno tre società fino ad allora inte­grate, con una con­vi­venza etnico-religiosa mil­le­na­ria; oltre ad atti­vare il pro­ta­go­ni­smo jiha­di­sta, adesso nemico giu­rato ma alleato, finan­ziato e adde­strato in un primo tempo dell’Occidente con­tro regimi e despoti fin lì, anche loro, alleati dell’Occidente e dei suoi equi­li­bri inter­na­zio­nali, alla fine spre­muti e occu­pati mili­tar­mente. Se non si afferma la con­vin­zione che la respon­sa­bi­lità è delle guerre degli Stati uniti e dell’Europa, nes­suno sen­tirà dav­vero il biso­gno di inter­ve­nire a ripa­rare o almeno a rac­co­gliere i cocci.

Vale allora la pena ricor­dare che sono un milione e 300mila le vit­time di alcune delle «nostre» guerre al ter­rore dopo l’11 set­tem­bre 2001 in Afgha­ni­stan, Iraq e Paki­stan, secondo i dati del pre­sti­gioso «Inter­na­tio­nal Phy­si­cian for the Pre­ven­tion of Nuclear War», orga­ni­smo Nobel per la pace negli anni ’80. Un rap­porto per difetto che esclude le guerre più recenti, la Libia, la Siria, l’ultima di Gaza. Che la terza guerra mon­diale non sia già comin­ciata? È una vera ecatombe.

Ora non con­tenti di tutto que­sto pre­pa­riamo con il governo Renzi e per bocca del gri­gio Gen­ti­loni e dell’annunciatrice Ue Moghe­rini, dimen­ti­chi dei risul­tati dell’ultima del 2011, una nuova guerra in Libia «con l’appoggio Onu» e «con­tro gli sca­fi­sti» con tanto di pre­vi­sione di «effetti col­la­te­rali che pos­sono coin­vol­gere inno­centi». Il tutto per finan­ziare da lon­tano nuovi campi di con­cen­tra­mento, come già con Ghed­dafi e poi con il governo degli insorti di Jibril. A que­sto serve l’impegno ambi­guo della diplo­ma­zia ita­liana per­ché nasca l’improbabile governo uni­ta­rio libico per un paese diviso ormai in quat­tro fazioni e con L’Isis all’offensiva. Dimen­ti­cando altresì che l’ultima guerra oltre ai pro­fu­ghi di oggi pro­dusse subito la fuga di due milioni di lavo­ra­tori sub­sa­ha­riani, afri­cani e asia­tici che lì lavo­ra­vano e che ancora vagano nell’area. Ecco dun­que che l’ideologia della «guerra uma­ni­ta­ria» pro­se­gue il suo corso quasi in auto­ma­tico. È così vero che in pieno fer­ra­go­sto il Cor­riere della Sera — la cui sto­ria guer­ra­fon­daia sarebbe da stu­diare a scuola — ha sen­tito il dovere di sco­mo­dare il punto di vista cri­tico di Ser­gio Romano. Anche lui — che resta comun­que «il miglior fab­bro» — alla fine, con mille e ragio­ne­voli riserve, con­viene che «sì la guerra si può fare»: soprat­tutto per­ché in gioco c’è l’approvvigionamento del petro­lio dell’Eni. I conti tor­nano. Ma se la guerra deve essere «uma­ni­ta­ria» che cos’è dun­que la disu­ma­nità che abbiamo pro­dotto e che muore affo­gata o chiusa nei Tir come carne da macello ava­riata men­tre in cam­mino tenta di ridi­se­gnare, abbat­tere, sor­pas­sare le nuove fron­tiere e muri del Vec­chis­simo continente?

Qui forse le ragioni dell’assuefazione gene­rale. Resta insop­por­ta­bile la pas­si­vità di chi si con­si­dera alter­na­tivo e di sini­stra. Chi lavora per un mondo di liberi ed eguali si tra­sformi in cor­ri­doio uma­ni­ta­rio, pre­pari l’accoglienza, attivi il soste­gno, diventi cam­mi­nante, defi­ni­sca la sua sede orga­niz­za­tiva final­mente euro­pea tra Lam­pe­dusa, i porti del Sud, Ven­ti­mi­glia, Calais, Melilla e la fron­tiera unghe­rese da abbat­tere. il mani­fe­sto ha lan­ciato in piena estate il dibat­tito che con­si­de­riamo neces­sa­rio se non deci­sivo C’è vita a sini­stra? Spe­riamo di non tro­varla solo a chiacchiere.

L’inchino europeo al capitale privato

Tagli al welfare. Si persegue quella che il mondo anglosassone da sempre considera l’essenza della democrazia moderna: una società di individui fondata sulla libertà d’impresa

Afferma un cele­bre ada­gio che nella per­vi­ca­cia si annida il demo­nio. Se è vero, le lea­der­ship euro­pee sono pri­gio­niere di potenze infere. Da sette anni inflig­gono ai pro­pri paesi e alle loro eco­no­mie una tera­pia nel segno dell’auste­rity che dovrebbe debel­lare la crisi e rimet­tere in moto la cre­scita. Non solo que­sta cura non ha pro­dotto nes­suno dei risul­tati attesi. Tutte le evi­denze depon­gono in senso con­tra­rio, al punto che sem­pre più nume­rosi eco­no­mi­sti main­stream si pro­nun­ciano a favore di poli­ti­che espan­sive. Ciò nono­stante la musica non cam­bia, nem­meno ora che l’Istituto sta­ti­stico nazio­nale della Ger­ma­nia fede­rale ha reso noti i dati sul secondo seme­stre di quest’anno. Anzi, il man­tra delle «riforme strut­tu­rali» imper­versa più forte che mai.
Insomma, il demo­nio sbanca. O c’è sem­pli­ce­mente un dio dispet­toso che si diverte ad acce­care gente che vuol per­dere. Sta di fatto che a suon di «riforme» l’Europa si sta sui­ci­dando, come già avvenne nel secolo scorso dopo il crollo di Wall Street, nono­stante il buon esem­pio degli Stati uniti roo­se­vel­tiani, che pure di capi­ta­li­smo ne capivano.

Que­sta è una let­tura pos­si­bile. I capi di Stato e di governo e i grandi ban­chieri sta­reb­bero sba­gliando i conti. Per super­bia e pre­sun­zione, forse per inca­pa­cità, come pare sug­ge­rire il mini­stro Padoan par­lando di pre­vi­sioni errate. Ma c’è un’altra ipo­tesi altret­tanto plau­si­bile. Anzi, a que­sto punto ben più vero­si­mile. Che non si tratti di errori ma del pesante tri­buto impo­sto dal mas­simo potere oggi regnante. Non­ché (di ciò troppo di rado si discute) del per­se­gui­mento di un lucido pro­getto. E di un cal­colo costi-benefici forse spe­ri­co­lato ma coe­rente, in base al quale la reces­sione, con i suoi deva­stanti effetti col­la­te­rali (defla­zione, disoc­cu­pa­zione, dein­du­stria­liz­za­zione), appare un prezzo con­ve­niente a fronte del fine che ci si pre­figge: la messa in sicu­rezza di un deter­mi­nato modello sociale nei paesi dell’eurozona.
Quale modello, è facile a dirsi, se leg­giamo in chiave poli­tica le «riforme strut­tu­rali» di cui si chiede a gran voce l’adozione. Costrin­gere gli Stati a «far qua­drare i conti» signi­fica nei fatti imporre loro, spesso con­giun­ta­mente, tre cose. La prima: ven­dere (sven­dere) il pro­prio patri­mo­nio indu­striale e demaniale.

La seconda: accre­scere la pres­sione fiscale sul lavoro dipen­dente (posto che ci si guarda bene – soprat­tutto ma non solo in Ita­lia – dal col­pire ren­dite, patri­moni e grandi eva­sori). La terza: tagliare la spesa sociale desti­nata al wel­fare (vedi le ultime ester­na­zioni del mini­stro Poletti in tema di pen­sioni), al sistema sco­la­stico pub­blico e all’occupazione nel pub­blico impiego (dato che altre voci del bilan­cio non sono mai in discussione).

Non è dif­fi­cile capire che tutto ciò signi­fica affa­mare il lavoro e spo­stare enormi masse di ric­chezza verso il capi­tale pri­vato. Nel frat­tempo, accanto a que­sti prov­ve­di­menti, ci si impe­gna a modi­fi­care le cosid­dette rela­zioni indu­striali. Così si varano “riforme del lavoro” che hanno tutte un deno­mi­na­tore comune: l’attacco ai diritti dei lavo­ra­tori (“rigi­dità”) al fine di fare della forza-lavoro una varia­bile total­mente subor­di­nata (“fles­si­bile”) al cosid­detto “datore”, che deve poter deci­dere in libertà se, quanto e a quali con­di­zioni utilizzarla.

Ne emerge un pro­getto nitido, che rove­scia di sana pianta non solo il sogno sov­ver­sivo degli anni della som­mossa ope­raia ma anche quello dei nostri costi­tuenti. Si vuole fare final­mente della vec­chia Europa quello che il mondo anglo­sas­sone da sem­pre con­si­dera l’essenza della demo­cra­zia moderna: una società di indi­vi­dui fon­data sulla libertà d’intrapresa, cioè sul potere pres­so­ché asso­luto del capi­tale pri­vato. Dopo­di­ché potrà forse spia­cere che dila­ghino disoc­cu­pa­zione e povertà men­tre enormi ric­chezze si con­cen­trano nelle mani di pochi. Pazienza. La “libertà” è un bene sommo intan­gi­bile, al quale è senz’altro oppor­tuno sacri­fi­care un fetic­cio d’altri tempi come la giu­sti­zia sociale.

A chi obiet­tasse che que­sta è una let­tura ten­den­ziosa, sarebbe facile repli­care con un rapido cenno alla teo­ria eco­no­mica. L’enfasi sulla disci­plina di bilan­cio sup­pone il ruolo-chiave del capi­tale finan­zia­rio nel pro­cesso di pro­du­zione, secondo quanto sta­bi­lito dalla teo­ria neo­clas­sica. Nel nome della “demo­cra­zia” que­sta teo­ria affida la dina­mica eco­no­mica alle deci­sioni del capi­tale pri­vato. Il pro­cesso pro­dut­tivo si inne­sca sol­tanto se esso pre­vede di trarne un pro­fitto, il che signi­fica con­ce­pirlo non sol­tanto come domi­nus natu­rale della pro­du­zione ma anche come il sovrano sul ter­reno sociale e poli­tico.
Vi sono natu­ral­mente altre teo­rie. Marx, per esem­pio (ma anche Key­nes) vede nella pro­du­zione una fun­zione sociale deter­mi­nata prin­ci­pal­mente da due fat­tori: la domanda (i biso­gni sociali, com­presi quelli rela­tivi a beni o ser­vizi “fuori mer­cato”) e la forza-lavoro dispo­ni­bile a sod­di­sfarli. In que­sta pro­spet­tiva la fun­zione del capi­tale (soprat­tutto di quello finan­zia­rio, il denaro) è solo quella di met­tere in comu­ni­ca­zione la domanda col lavoro. Per que­sto non gli è rico­no­sciuto alcun potere di veto, meno che meno la sovra­nità. Anzi: la dispo­ni­bi­lità di capi­tale è inte­ra­mente subor­di­nata alla deci­sione poli­tica, per quanto con­cerne sia la leva fiscale, sia la massa mone­ta­ria. Inu­tile dire che que­ste teo­rie sono tut­ta­via reiette, bol­late come stra­va­ganti e antimoderne.

Si pensa alle teo­rie come cose astratte, ma, come si vede, esse in fili­grana par­lano di sog­getti in carne e ossa e di con­cre­tis­simi con­flitti. Il che spiega in abbon­danza la povertà logica delle resi­stenze alle cri­ti­che key­ne­siane e mar­xi­ste. Spiega il ver­go­gnoso ser­vi­li­smo dei media, fatto di igno­ranza e oppor­tu­ni­smo. E spiega soprat­tutto per­ché, per l’esta­blish­ment euro­peo, le “riforme strut­tu­rali” pro­pu­gnate nel nome della teo­ria neo­clas­sica siano un valore in sé, ben­ché non ser­vano affatto a risol­vere la crisi, anzi la stiano aggra­vando oltremisura.

La que­stione, insomma, è solo in appa­renza eco­no­mica e in realtà squi­si­ta­mente poli­tica. Del resto, nella sovra­nità asso­luta del capi­tale e nella totale subor­di­na­zione della classe lavo­ra­trice risiede la sostanza dei trat­tati euro­pei che in que­sti vent’anni hanno modi­fi­cato i rap­porti di forza tra Stati e isti­tu­zioni comu­ni­ta­rie, tra assem­blee elet­tive e poteri tec­no­cra­tici. È que­sto il punto di caduta di prov­ve­di­menti in appa­renza det­tati dalla ragion pura eco­no­mica come il fami­ge­rato fiscal com­pact; que­sta la ratio della scia­gu­rata deci­sione, al tempo del “governo del pre­si­dente”, di inse­rire il pareg­gio di bilan­cio in Costi­tu­zione. Non ve n’era biso­gno, essen­doci già Maa­stri­cht. Ma si sa, si prova un bri­vido par­ti­co­lare nel pro­ster­narsi dinanzi ai primi della classe, nell’eccedere in espres­sioni ser­vili. In altri tempi si sarebbe par­lato di collaborazionismo.

Un solo dub­bio resta, nono­stante tutto. È chiaro che alle lea­der­ship euro­pee non inte­ressa gran­ché dell’equità sociale, né fa pro­blema, ai loro occhi, l’instaurarsi di un’oligarchia. Ma a un certo momento (ormai pros­simo) non sarà più tec­ni­ca­mente pos­si­bile dre­nare risorse verso il capi­tale. Già oggi l’impoverimento di massa genera disfun­zioni gravi, come dimo­stra l’imperiosa esi­genza di “rifor­mare” le Costi­tu­zioni per affran­care i governi dall’onere del con­senso. Insomma, è sem­pre più evi­dente che il modello neo­li­be­ri­sta urta con­tro limiti sociali e poli­tici non facili a var­carsi. È vero che in un certo senso il capi­tale non cono­sce patria (è di casa ovun­que rie­sca a valo­riz­zarsi). Ma, a parte il fatto che gli equi­li­bri geo­po­li­tici risen­tono del grado di forza interna delle com­pa­gini sociali (per cui l’Occidente rischia grosso nel con­fronto con l’«altro mondo», in ver­ti­gi­nosa cre­scita, ricco di capi­tali e di risorse umane), dav­vero è pen­sa­bile tenere a bada società già avvezze alla demo­cra­zia sociale (in que­sto l’Europa si distin­gue dagli Stati uniti) a dispetto di una regres­sione ad assetti neo­feu­dali? Abbiamo detto che non si capi­sce la discus­sione eco­no­mica se non la si legge in chiave poli­tica. Ma è pro­prio un pro­blema poli­tico quello che le lea­der­ship neo­li­be­ri­ste sem­brano non porsi. Con­fer­mando tutta la distanza che corre tra gli sta­ti­sti e i politicanti.

 www.ilmanifesto.info
 

09desk1 balcone elena-cattaneo 0

«Non ho visto il corag­gio di volare alto. La verità è che non è que­sta la riforma costi­tu­zio­nale che serve al Paese». La sena­trice a vita Elena Cat­ta­neo annun­cia la pro­pria asten­sione, «che so valere come voto con­tra­rio», con tre con­si­de­ra­zioni: una «riguarda il con­te­sto gene­rale in cui si sono svolti i lavori. Di scarso ascolto e lin­guag­gio ina­datto a un momento tanto impor­tante. Si è par­lato di allu­ci­na­zioni, di pro­fes­so­roni, con un sen­ti­mento di suf­fi­cienza verso acca­de­mici ed esperti poli­ti­ca­mente impe­gnati. Il lin­guag­gio deriva dal pen­siero e gli illu­stri stu­diosi di sto­ria poli­tica pre­senti in quest’aula mi inse­gnano — pro­se­gue la scien­ziata — che l’anti-intellettualismo è un indi­ca­tore di crisi cul­tu­rale e civile per un sistema libe­ral­de­mo­cra­tico». Poi il metodo, «con­di­zio­nato da stra­te­gie di governo e disci­pline di par­tito con cui si sono det­tati con­te­nuti, paletti e tempi decisi fuori da quest’aula. Non si può con­durre un espe­ri­mento che pre­sup­pone libera con­di­vi­sione demo­cra­tica senza la dispo­ni­bi­lità a esa­mi­nare dav­vero i risul­tati che l’esperimento è desti­nato a pro­durre». Infine, «gli inter­venti e i miei col­lo­qui con col­le­ghi dell’emiciclo mi fanno con­clu­dere che si tratta di un pro­getto pastic­ciato e fret­to­loso» che «non è in grado ora di indi­care l’esito, l’equilibrio, la visione dell’assetto che stiamo costruendo».

http://www.ilmanifesto.info

—  Andrea Colombo, 8.8.2014

Palazzo Madama. La sedia vuota di Renzi, il tabellone mezzo spento, le facce scure. Il giorno del trionfo annunciato si chiude con un bilancio tutto negativo. Persino Calderoli si astiene e minaccia di remare contro

Matteo Renzi

Comin­cia con una sedia vuota. Fini­sce con un tabel­lone dei voti in cui metà delle luci sono spente. Due istan­ta­nee che resti­tui­scono per intero il senso di un trionfo atteso e pre­pa­rato muta­tosi alla fine nella mesti­zia di una di quelle vit­to­rie che pesano più delle sconfitte.

Su quella sedia vuota, pro­prio al cen­tro dei ban­chi del governo, doveva sedersi Mat­teo Renzi, per poi pren­dere la parola di fronte al Paese in festa e riven­di­care il merito di aver sgo­mi­nato la mel­mosa truppa di fre­na­tori attenti solo alle pre­bende. Il vec­chio che final­mente arre­tra di fronte all’avanzata impe­tuosa di un capo capace di indi­care una data, l’8 di ago­sto, e poi rispet­tarla come un cro­no­me­tro. E le tele­vi­sioni lì, a immor­ta­lare lo sto­rico momento e met­tere in diretta comu­ni­ca­zione il con­dot­tiero col Paese, ché certo non era ai sena­tori, mestie­ranti loschi della poli­tica, che il gene­ra­lis­simo inten­deva rivol­gersi. A quelli, nella sce­neg­gia­tura di palazzo Chigi, toc­cava la parte ingrata dei fel­loni vinti.

La sedia è rima­sta vuota. Il discorso al popolo accla­mante sarà per un’altra volta, quando la riu­scita dello spet­ta­colo sarà garan­tita. Sta­volta no, non ci si poteva nep­pure spe­rare. E’ stata la stessa truppa del pre­si­dente, i sena­tori del Pd, a scon­si­gliare lo show. Con una riforma, per dirla con Lore­dana De Petris di Sel, «impo­sta dalla mag­gio­ranza alla mino­ranza e dal governo alla mag­gio­ranza», c’era il caso che i fischi sover­chias­sero gli applausi. Con l’economia di nuovo a picco, c’era da scom­met­tere che qual­cuno avrebbe posto impor­tune domande sul per­ché, invece di met­tere mano ai capi­toli urgen­tis­simi, il Dina­mico abbia pre­fe­rito per­dere mesi die­tro a un riforma di limi­ta­tis­sima utilità.

Poi, c’era lo spet­tro di quel deso­lato tabel­lone mezzo spento, e nep­pure quello avrebbe gio­vato allo spet­ta­colo. Non è mica la prima volta che qual­che gruppo par­la­men­tare sce­glie di non par­te­ci­pare al voto, revo­cando così in dub­bio non la qua­lità della legge ma la legit­ti­mità stessa della pro­ce­dura. Però di solito non capita quando ci sono di mezzo le riforme costi­tu­zio­nali, per­ché quello è un com­parto in cui, se viene messa in forse la legit­ti­mità sostan­ziale, il fal­li­mento è garan­tito in par­tenza. Le Costi­tu­zioni ser­vono appunto a tenere insieme, devono offrire un ter­reno comune a tutti o quasi. Se le applaude solo chi le ha scritte, val­gono un po’ meno della carta straccia.

Almeno a diser­tare fosse stato un solo par­tito, anche forte ma iso­lato: in quel caso si fa pre­sto a bol­lare di sabo­tag­gio e cro­nica man­canza di senso dello Stato i reprobi. Invece a non votare sono tanti, e troppo diversi tra loro per ipo­tiz­zare una comune intel­li­genza: c’è il Movi­mento 5 Stelle ma anche la Lega, C’è il Gruppo Misto-Sel, il Gal, che per essere stato costruito nei labo­ra­tori di Arcore si è poi rive­lato molto meno obbe­diente dei liberi sena­tori del libero Pd.

Non basta: per­ché poi ci sono pure i dis­si­denti, e non si accon­ten­tano di sde­gnare la scheda. Pren­dono la parola “in dis­senso”, e uno dopo l’altro mitra­gliano non solo la sostanza della riforma, ma anche la dis­sen­nata pro­ce­dura con cui la si è appro­vata affron­tando rego­la­menti col man­ga­nello. I ribelli del Pd ancora ancora sal­vano le forme e fanno finta di rico­no­scere al pre­si­dente Grasso una con­du­zione, se non pro­prio impec­ca­bile, almeno tol­le­ra­bile. Augu­sto Min­zo­lini, che parla per i dis­si­denti dell’altra sponda, non si perita. Dice quello che a palazzo Madama sanno tutti ma che non sta bene affer­mare a voce alta. Rin­fac­cia a Grasso una per una le scor­ret­tezze di cui si è reso arte­fice. Lo liquida come ver­sione rive­duta e cor­retta dell’eterno Abbondio.

Sin qui il copione atteso, che bastava e avan­zava per tenere lon­tano don Mat­teo. Poi sono arri­vate le sor­prese. Chi l’avrebbe mai detto che la sena­trice a vita Cat­ta­neo si sarebbe lan­ciata in una simile requi­si­to­ria? «Sono arri­vata senza un giu­di­zio sulla riforma, decisa a seguire i lavori e poi deci­dere. Ma sia per i con­te­nuti del testo sia per il metodo con cui la si è varata non posso che votare con­tro» con l’astensione. Segue un atto d’accusa duris­simo, che lascia la mag­gio­ranza a bocca aperta. Non per modo di dire: seduto al suo fianco Mario Monti spa­lanca le lab­bra sem­pre più via via che il j’accuse pro­se­gue e s’indurisce. E’ una con­danna senza appello, quella della scien­ziata, tanto più dolo­rosa per­ché lei certo non la si può accu­sare di par­lare solo per par­tito preso.

E che dire di Roberto Cal­de­roli, che sarebbe co-relatore, però si astiene (che al Senato è appunto come votare con­tro)? Sera­fico, denun­cia pres­sioni di ogni tipo e se non fa il primo nome dello Stato poco ci manca: «Mi hanno tele­fo­nato tutti, tranne il Papa». Poi fin­gen­dosi affa­bile minac­cia: «Se alla Camera la legge miglio­rerà l’astensione diven­terà voto a favore. Se peg­gio­rerà sarò nemico di que­sta riforma. Sta a voi deci­dere». Il voto finale è impie­toso: 183 sì. Lon­ta­nis­simi dalla mag­gio­ranza di due terzi neces­sa­ria per fare del refe­ren­dum con­fer­ma­tivo una gen­tile con­ces­sione del nuovo onni­po­tente. Sarà un refe­ren­dum obbli­ga­to­rio e dun­que vero, non un plebiscito.

Fini­sce così una bat­ta­glia che il governo ha voluto cam­pale, e il cui risul­tato reale si leg­geva ieri nella facce meste della mini­stra Boschi e della pre­si­dente Finoc­chiaro. Tutta la gio­stra dell’ultimo mese è stata in realtà tempo perso. La riforma dovrà cam­biare alla Camera, poi tor­nare al Senato. Insomma il primo giro ha ancora da comin­ciare, per­ché le let­ture, alla fine, non saranno 4 ma, bene che vada, 5. E l’Italicum è ancora tanto in alto mare che Pd, Fi e Ncd hanno con­cor­dato ieri di rin­viarne l’esame, anti­ci­pando il prov­ve­di­mento sulla Pa. La legge elet­to­rale verrà appro­vata per dicem­bre. Forse.
Il giorno del trionfo si chiude così con un bilan­cio da Leh­man Bro­thers. La riforma è pes­sima. Ha spac­cato il Par­la­mento e spac­cherà il Paese soprat­tutto gra­zie alla stra­te­gia musco­lare del suo inven­tore. E non sarà nep­pure rapida: per non spre­care un mese a trat­tare con mezzo Senato, Renzi ne per­derà sei con la quinta let­tura. Com­pli­menti, presidente.

Costituzione. Il maggior responsabile è il Governo che ha diretto l’intera operazione senza lasciare nessuno spazio all’autonomia del Parlamento con progressive imposizioni e l’ininterrotta invasività della sua azione che hanno annullato di fatto il ruolo costituzionale del Senato

Un’infinita tri­stezza. È que­sto il sen­ti­mento che pre­vale nel momento in cui si assi­ste alla vota­zione del Senato sulla modi­fica della Costi­tu­zione. Domani ripren­de­remo la lotta per evi­tare il peg­gio: per­ché la legge costi­tu­zio­nale con­cluda il suo iter dovranno pas­sare ancora molti mesi e altri pas­saggi par­la­men­tari ci aspet­tano, poi — nel caso — il refe­ren­dum oppo­si­tivo. Dun­que, nulla è ancora per­duto. Salvo, forse, l’onore.

In pochi giorni il Senato non ha appro­vato una riforma costi­tu­zio­nale (buona o cat­tiva che si possa rite­nere), bensì ha distrutto il Par­la­mento sotto gli occhi degli ita­liani. Nes­suno dei pro­ta­go­ni­sti è stato esente da colpe. Si è assi­stito a una sorta di omi­ci­dio seriale, cia­scuno ha inferto la sua pugna­lata. Alcuni con mag­gior vigore, altri con imper­do­na­bile incon­sa­pe­vo­lezza, altri ancora non tro­vando altre vie d’uscita.

Il mag­gior respon­sa­bile è cer­ta­mente stato il Governo che ha diretto l’intera ope­ra­zione, senza lasciare nes­suno spa­zio all’autonomia del Par­la­mento. Le pro­gres­sive impo­si­zioni e l’ininterrotta inva­si­vità dell’azione del Governo in ogni pas­sag­gio par­la­men­tare hanno annul­lato di fatto il ruolo costi­tu­zio­nale del Senato. Non s’è trat­tato solo dell’anomalia della pre­sen­ta­zione di un dise­gno di legge gover­na­tivo in una mate­ria tra­di­zio­nal­mente non di sua competenza.

Ma anche nell’aver costretto la Com­mis­sione — in modo poco tra­spa­rente — a porre que­sto come testo base nono­stante la discus­sione avesse fatto emer­gere altre mag­gio­ranze. E poi, ancora, nell’aver voluto con­trol­lare tutto il lavoro dei rela­tori — è la pre­si­dente della Com­mis­sione che ha rico­no­sciuto che il Governo ha “vistato” gli emen­da­menti pre­sen­tati appunto dai rela­tori — con buona pace dell’autonomia del man­dato par­la­men­tare e del rispetto della divi­sione dei poteri.

Non solo i rela­tori, ma ogni sena­tore ha dovuto con­fron­tarsi non tanto con l’Assemblea bensì con la volontà gover­na­tiva, e molti si sono pie­gati. Mi dispiace doverlo dire, ma l’andamento dei lavori ha dimo­strato come un certo numero degli attuali sena­tori non ten­gano in nes­sun conto non solo la Costi­tu­zione, ma nep­pure la respon­sa­bi­lità poli­tica, di cui cia­scuno di loro dovrebbe essere tito­lare dinanzi al corpo elettorale.

I pochis­simi voti segreti con­cessi su que­stioni del tutto mar­gi­nali hanno for­nito la prova di quanto fos­sero con­di­zio­nati e insin­ceri i voti palesi. È stato così pos­si­bile evi­den­ziare l’esteso numero dei rap­pre­sen­tanti della nazione che hanno votato con la mag­gio­ranza solo per timore di essere messi all’indice dagli stati mag­giori dei rispet­tivi par­titi. Una lace­ra­zione costi­tu­zio­nal­mente insop­por­ta­bile. Se non si garan­ti­sce (o non si eser­cita) la libertà di coscienza sui temi costi­tu­zio­nali il prin­ci­pio del libero man­dato serve vera­mente a poco. E tutto è stato fatto, invece, per vin­co­lare i rap­pre­sen­tanti alla disci­plina di par­tito. Ancora un colpo all’autonomia del Par­la­mento inferto — più che dal Governo o dai par­titi — da que­gli stessi sena­tori che non si sono voluti opporre pale­se­mente a ciò che pure non condividevano.

S’è discusso e pole­miz­zato sulla con­du­zione dei lavori, sull’interpretazione dei rego­la­menti e dei pre­ce­denti. Quel che lascia basiti è però altro. Ciò che è man­cato è la con­sa­pe­vo­lezza che si stesse discu­tendo di una riforma pro­fonda del nostro assetto dei poteri e degli equi­li­bri com­ples­sivi defi­niti dalla Costi­tu­zione. Se si fosse par­titi da que­sto assunto non si sarebbe potuto accet­tare, in nes­sun caso, un anda­mento che ha sostan­zial­mente impe­dito ogni seria discus­sione su tutti i punti della revi­sione pro­po­sta. Non si sarebbe dovuto assi­stere allo spet­ta­colo sur­reale che ha visto prima esau­rire nella rissa e nel caos il tempo della discus­sione, per poi pro­ce­dere a un’interminabile serie di vota­zioni, con un’Assemblea muta e irri­fles­siva che mec­ca­ni­ca­mente respin­geva ogni emen­da­mento dei sena­tori di oppo­si­zione e appro­vava la riforma defi­nita dagli accordi con il Governo. Spetta al pre­si­dente di assem­blea diri­gere i lavori garan­tendo la discussione.

Non credo possa affer­marsi che ciò sia avve­nuto. Anche in que­sto caso per il con­corso di molti. Per­sino dell’opposizione, la quale ha dovuto uti­liz­zare l’arma estrema dell’ostruzionismo che, evi­den­te­mente, osta­cola una discus­sione razio­nale e pacata. Ciò non toglie che non si doveva accet­tare nes­suna for­za­tura sui tempi, nes­suna inter­pre­ta­zione rego­la­men­tare restrit­tiva dei diritti delle oppo­si­zioni, nes­suna uti­liz­za­zione esten­siva dei pre­ce­denti. Si doveva invece ricer­care il dia­logo, la tra­spa­renza, il con­corso di tutti i rap­pre­sen­tanti della nazione. Era com­pito di tutti creare un clima “costi­tu­zio­nale”, ido­neo alla riforma. Nes­suno lo ha ricer­cato. E temo non sia solo una que­stione di tem­pe­ra­tura, ma — ahimè — di cul­tura costi­tu­zio­nale che non c’è.

La con­clu­sione di ieri ha san­cito la dis­sol­venza del Par­la­mento. La dele­git­ti­ma­zione dell’organo tito­lare del potere di revi­sione della Costi­tu­zione è alla fine stata san­zio­nata dagli stessi suoi com­po­nenti. Il rifiuto di par­te­ci­pare al voto con­clu­sivo da parte di tutti gli oppo­si­tori rende palese che non si può pro­se­guire su que­sta strada. Vedo esul­tare la mag­gio­ranza acce­cata dal suc­cesso di un giorno, mi aspetto qual­che rozza bat­tuta rivolta alla oppo­si­zione “che fugge”. Ma spero che, oltre la cor­tina dell’irrisione, qual­cuno si fermi per pen­sare a come rime­diare. La Costi­tu­zione non può essere impo­sta da una mag­gio­ranza poli­tica senza una discus­sione e con­tro l’autonomia del Parlamento.

 

Oui, Je suis Feministe!

by IL CORPO DELLE DONNE

Io sono a Milano, che è in Lombardia, che è in Italia che è in Europa. Voi siete a Siracusa, Napoli, Tento, Pierolo, Ravanna, Mantova, Lecce…che sono in Italia, e che sono in Europa. Inizio così da un anno tutte le mie presentazione nelle scuole. Per far comprendere ai ragazzi/e che Europa non significa solo euro bensì  idee che posso importare ed esportare dal mio Paese. Leggiamo questo utilissimo articolo di Giulia Camin da Parigi. Ragazze: non c’è cambiamento senza fatica, questo articolo è dettagliato, serio, completo e quindi richiede un po’ di tempo. Troviamolo, è importante:-)

L’altra sera ho ceduto alla tentazione e, cenando, ho seguito in streaming il confronto tra i tre candidati alle primarie del PD. Quattro gli uomini in scena: tre i candidati, un presentatore mediatore del dibattito. Neanche una donna presente. La domanda riguardante le pari opportunità è stata essenzialmente una e verteva, mi pare, sulla questione donne e lavoro. Quali le politiche da attuare? Quale futuro per le donne italiane e per il paese intero bisognoso di risorse in cui investire? Pochi, pochissimi, i secondi per rispondere a questa domanda, una fra tante.
Ho ripensato a quando, a pochi mesi dalle elezioni presidenziali, il 7 marzo 2012 ero al teatro La Cigale a Montmatre,Parigi, per seguire un dibattito non ripreso dalle telecamere in cui i candidati alle elezioni presidenziali rispondevano alle domande di 45 associazioni femministe francesi. Ricordo perfettamente la risposta di François Hollande, ma anche quella di Eva Joly o di Jean-Luc Mélenchon, al quesito “ Lei è femminista? Se sì, ci spieghi perché”. Quella sera credo di aver definitivamente capito che parlare di femminismo in Francia è piuttosto normaleRicordo anche il piacere del sentir parlare dei politici in un luogo altro dalla televisione. Il tempo di un teatro, la calma, la lentezza di un dibattito lontano dagli slogan che utilizzano i politici pressati da un cronometro e l’assenza di quelle scenografie ridicole che rendono la politica più simile ad un quiz a premi che a qualcosa di concreto e reale che parla di noi e delle nostre vite.

 Oggi ho ceduto di nuovo alla tentazione di collegarmi con l’Italia attraverso questo mezzo diabolico e meraviglioso che è internet; è domenica è a pranzo mi sono concessa un telegiornale. Uno dei pochi visibili dall’estero è quello del TG3. Al termine del notiziario, viene mandata in onda la rubrica “Fuori Linea”. L’avvilimento arriva con una delle notizie commentate: in Italia, per festeggiare i 18 anni, tra le ragazze si è diffusa una nuova moda, quella dei video pre-diciottesimo; si tratta di video clip da mostrare ad amici e parenti alla propria festa dei 18 anni. Le immagini che scorrono nel servizio mostrano ragazzine scimmiottare cantanti o attrici,  la maggior parte indossa un costume da bagno. Il servizio mi ferisce e indigna non tanto per le immagini, indicative del rapporto che hanno con i media gli adolescenti di oggi, ma perché dalle parole della commentatrice non traspare alcuna riflessione critica. Nessuna riflessione sul perché queste ragazze vogliano sentirsi e vedersi nel ruolo di celebrità, nessuna riflessione sul fatto che le immagini mostrate siano un susseguirsi di stereotipi  mediatici in cui la sessualizzazione precoce del corpo di queste adolescenti regna protagonista ( verso la fine vediamo una donna-cavernicola sensualmente selvaggia in stile Shakira, ragazza seminuda nella natura stile madre-terra o venere post-rinascinentale etc etc). Ma il punto centrale arriva con l’intervista ad un giovane uomo che ci  spiega che per fare un regalo di questo tipo bisogna considerare di spendere dai 600 ai 1500 euro. La presenza di questo signore è quindi di tipo pubblicitario: è un fotografo e organizzatore, qualcuno che trae profitto da questo fenomeno, le immagini infatti lo ritraggono mentre scatta foto a delle ragazze. Le ragazze viste nei video sono giovani, non ancora maggiorenni visto che il video dovrà essere pronto per i festeggiamenti della maggiore età. Questo servizio a mio parere non è soltanto pericoloso, ma direi pedagogicamente anche disonesto; è collegato e segue nell’immediato la messa in onda di un telegiornale (trasmissione di informazione percepita dai più come obbiettiva e capace di filtrare le notizie più importanti e autentiche). Il tema principale, che è quello della mediatizzazione delle adolescenti, viene normalizzato, banalizzato; affrontato senza alcuna reale riflessione critica né sulle giovani generazioni né sulla nostra società così incapace di stare dalla parte delle adolescenti spesso gettate in pasto ai media con noncuranza.

L’Italia è al 71 esimo posto del Global Gender Gap Report 2013 (potete scaricare il pdf quihttp://reports.weforum.org/global-gender-gap-report-2013/ l’Italia la trovate a pagina 232).

Il problema è strutturale e culturale e deve essere affrontato trasversalmente. La Francia non è il paradiso delle pari opportunità, capiamoci. Il fatto che io abbia trovato un lavoro qui e che io qui mi senta meno discriminata rispetto alle esperienze vissute in Italia non è necessariamente connesso a dati statistici rassicuranti. La differenza di salario tra uomo e donna qui si aggira intorno al 27%, rendiamoci conto. Però delle differenze sostanziali ci sono e si vedono. La Francia, nel Global Gender Gap report 2013, è al 45 posto. Ho letto post e articoli francesi in cui si manifestava molta amarezza nei confronti di un risultato non ancora all’altezza delle aspettative. In Francia la Ministra des Droits des Femmes, e porta voce del governo Hollande,  si chiama Najat Vallaud-Belkacem, origini marocchine, classe 1977 (ha due anni in più di me e questo mi fa sorridere visto che da noi in Italia a 45 anni si è ancora giovani). Già dando un occhiata al sito internet potete rendervi conto del lavoro che la Ministra, aiutata da numerose associazioni, sta svolgendo per mettere in moto un sistema educativo anti-discrimatorio di lotta agli stereotipi a partire dall’infanzia e dalle scuole. E’ lì che si agisce per costruire una cultura anti-violenta del rispetto. Quihttp://femmes.gouv.fr/category/prevention/  trovate le informazioni sul progetto ABCD: Egalité au coeur de notre école  un dispositivo costruito nel corso di oltre un anno di lavoro volto realizzare progetti educativi sulla decostruzione di stereotipi e discriminazioni fra  maschi e femmine. Il sito fornisce materiali per accompagnare un lavoro sperimentale realizzato nel corso dell’anno scolare 2013-2014 in 10 provveditorati volontari e riguarda 275 scuole e oltre 600 classi. Questo esperimento servirà da rodaggio, in futuro le classi che potranno partecipare saranno sempre più numerose. Qui un link con risorse gratuite scaricabili per la formazione di insegnanti, operatori, educatori, altre per attuare attività didattiche pedagogiche nelle classi o associazioni interessate http://www.cndp.fr/ABCD-de-l-egalite/accueil.html.  Si tratta di un lavoro finanziato dallo stato volto alla sensibilizzazione dei cittadini e alla difesa e valorizzazione dell’infanzia e dell’adolescenza e costituisce solo una piccola parte del progetto di legge per la parità tra i sessi presentato nel luglio scorso e scaricabile qui http://www.najat-vallaud-belkacem.com/2013/07/03/tout-savoir-sur-le-projet-de-loi-pour-legalite-entre-les-femmes-et-les-hommes/ .
Gli assi più importanti di questa legge sono volti ad assicurare la parità nelle imprese come all’interno della convivenza domestica, a contrastare la povertà femminile legata a un mondo del lavoro ostile e refrattario alla valorizzazione delle risorse femminili, e a proteggere le donne da tutte le forme di violenza e generare la parità. Fa parte proprio di questo disegno di legge il divieto di realizzare concorsi di bellezza per minorenni, le cosiddette “mini-miss” (sempre per restare nel tema della difesa dell’infanzia).  Vi prego di dare una letta, una rapida occhiata anche solo ai titoli e testi brevi contenuti nelle pagine che vi ho linkato; il francese non è una lingua così lontana dall’italiano e anche se non siete francofoni/e sono certa che riuscirete comunque a cogliere la struttura e la ricchezza dei materiali messi a disposizione da uno stato che lavora con e per i propri cittadini e cittadine. Vi sottopongo questa pioggia di link perché sono certa che una conoscenza approfondita dei passi in avanti fatti dalla Francia (o da altri paesi) in direzione di un’educazione alla parità e al rispetto fra i sessi non possa che farci bene e darci qualche spunto per fare altrettanto in Italia. Ne abbiamo bisogno!
Mi sono recentemente collegata al sito di un Ministero che praticamente non esiste, un ministero fantasma, quello italiano delle “Pari opportunità” http://www.pariopportunita.gov.it/ . Penso quindi al video http://www.youtube.com/watch?v=7HuGdeVG_40  che ho visto qualche giorno fa in cui Lorella Zanardo durante un incontro Ted Conference spiega l’immenso lavoro, non sempre riconosciuto, che sta facendo nelle scuole italiane con Nuovi Occhi per i Media. Ma mentre Lorella gira l’Italia in lungo e largo, e centinaia di blogger e associazioni di volontarie e volontari cercano di cambiare il paese attraverso l’innalzamento di consapevolezza, cosa sta facendo lo stato italiano? Sventola il tema del Femminicidio solo quando é materia sensibile per una campagna elettorale? Perché da noi non esiste per davvero un Ministero dedito alla difesa della parità e dei diritti delle donne? Alla protezione dell’infanzia,  all’educazione al rispetto contro ogni forma di discriminazione e violenza? Pretenderemo risposte in materia prima di tornare alle urne?  Come lo pretenderemo? Come ci organizzeremo per avere risposte, far circolare proposte, essere parte attiva ?

Pensiamoci e facciamolo studiando come si stanno muovendo anche altre paesi, soprattutto europei, per trovare una strategia comune e muoverci rapidamente nella stessa direzione. Voi cosa ne pensate?

INTERVISTA – Anna Maria Merlo – PARIGI
Il rapporto Igas presentato da un gruppo di economisti al parlamento di Strasburgo propone una via diversa e opposta all’austherity per raggiungere gli stessi obiettivi fissati dalla Commisione Ue«Se la disoccupazione sale al 25% ci saranno rivolte tali che alcuni paesi potrebbero anche uscire dall’euro» «Per alcuni anni si può sospendere l’obbligo del deficit al 3% almeno per gli stati più in difficoltà»
Quattro anni dopo l’inizio della Grande Recessione, la zona euro resta in crisi, il pil è ancora al di sotto del livello pre-crisi. La disoccupazione batte i record: è all’11,6% e, se le politiche di austerità proseguiranno, nel 2013 si arriverà a 12 milioni di disoccupati nell’Unione europea e a 9 milioni nella sola zona euro. Di fronte a questa situazione drammatica la Commissione continua a riproporre le stesse ricette, senza mettersi in causa. Il pensiero unico domina, come se non ci fosse altra via d’uscita che ridurre deficit e debiti in tempi accelerati. Per rilanciare il dibattito tra i cittadini europei, un gruppo di economisti dell’Ofce (Osservatorio francese della congiuntura economica), dell’Economic Council of the Labour Movement di Copenhagen e dell’Institut für Makroökonomie di Düsseldorf ha redatto e presentato all’europarlamento il primo rapporto Igas (Independent Annual Growth Survey) che analizza la situazione, mette a fuoco le conseguenze delle politiche di austerità e propone un’alternativa per arrivare in miglior salute agli stessi obiettivi della Commissione: rientro del debito entro il 60% del pil in vent’anni (il testo e i grafici, molto chiari, sono sul sito: http://www.iags-project.org). Ne parliamo con l’economista Christophe Blot dell’Ofce. Quale è l’obiettivo del rapporto? Vogliamo inscrivere il dibattito e portarlo a livello europeo, perché bisogna guardare i risultati in faccia e riflettere su come agire diversamente. Perché con l’austerità in opera andiamo dritti al disastro senza peraltro risolvere il problema del debito. Voi contestate la diagnosi macroeconomica fatta dalla Commissione, starebbe uccidendo il malato con una cura da cavallo? Nel 2010 in vari paesi, Irlanda, Grecia, Spagna, sono stati varati dei piani di austerità. Nel 2011 questi piani si sono generalizzati e poi ampliati quest’anno. Nel 2013 si prevede di continuare nella stessa direzione. Da metà del 2011 l’effetto è stato il ritorno della recessione. Le prospettive di crescita sono negative. Non eravamo completamente usciti dalla crisi precedente e l’austerità ha creato una situazione ancora più precaria e una nuova recessione. La fiducia dei mercati non è tornata, i tassi di interesse per Spagna, Italia, Irlanda e Grecia restano alti. Cioè i mercati continuano a dubitare della stabilità degli stati, malgrado l’austerità. La cura non ha funzionato. La Commissione ha sottostimato gli effetti recessivi dell’austerità». A differenza dell’Fmi, che sembra stia facendo ammenda. In realtà sembra che ci siano due Fmi: uno dice che siamo andati troppo lontani con l’austerità, ma l’altro fa parte della troika che prescrive rimedi da cavallo. Comunque è significativo che l’Fmi dica: attenzione, siamo forse andati troppo lontano. Quale alternativa propone il vostro rapporto? Voi dite che puo’ essere attuata senza modificare i trattati esistenti nella Ue. Consideriamo che si possa conservare lo stesso obiettivo della Commissione: riduzione del peso del debito al 60% del pil in vent’anni. Lo si puo’ fare con minore recessione e più crescita, con un minore impatto sociale attraverso una consolidazione più dolce e ritardata. Bisognerebbe aspettare due-tre anni, per attuare un programma meno costoso e più efficace, con un minore impatto sull’occupazione. Quando la situazione è «fuori controllo» i trattati permettono di non rispettare l’obbligo del 3% di deficit massimo. Per i paesi in recessione, Spagna, Italia, Portogallo, Grecia, dovrebbe venire sospesa la regola del 3%. L’obiettivo dovrebbe venire dilatato nel tempo, per minimizzare l’impatto in termini di occupazione». Oggi per ristabilire la competitività ci dicono che bisogna ridurre i salari e limitare i diritti del lavoro. Ma il salario è l’elemento da cui dipende la domanda. Se si continua con l’aggiustamento del costo del lavoro si prosegue nella strategia depressiva. Non è credibile. La competitività è un fatto più complesso, che non si raggiunge con la riduzione del costo del lavoro, ma con l’innovazione, i legami tra le imprese e le banche, il posizionamento internazionale delle imprese, ecc. Negli anni Trenta era stata scelta la strada della riduzione dei salari e adesso non siamo ancora usciti da questo schema, che non ha funzionato allora e non funziona oggi. La competitività è una questione relativa: fino al 2007-2008 c’è stata divergenza in Europa, oggi assistiamo a una convergenza, ma verso il basso, attraverso la depressione dei salari. Il più basso salario possibile non è una soluzione per uscire dalla crisi sociale ed economica. L’obiettivo è salvare l’euro. Ma non rischiamo che l’Europa finisca per esplodere se la crisi sociale si aggrava in alcuni paesi? Se continuiamo a lasciare paesi con un tasso di disoccupazione al 25% ci saranno rivolte tali che alcuni paesi potrebbero decidere di gettare la spugna e uscire dall’euro. Ma nella zona euro ci sono le risorse necessarie per riportare la crescita e cambiare la strategia. Il Patto per la crescita, che Hollande si vanta di aver fatto approvare, è una strategia sufficiente? Ci vorrebbe un vero piano per favorire l’innovazione e migliorare così la competitività. Oggi non c’è: il Patto prevede 120 miliardi in otto anni. Ma l’austerità significa tagli di 140 miliardi solo nel 2013, dal 2010 il rigore ha significato tagli per più di 100 miliardi ogni anno. La Bce ha dato la garanzia di acquisti illimitati di obbligazioni, ma ha posto delle condizioni. E’ questa la strada buona? La Bce non puo’ prendere rischi. Emette moneta e non puo’ avere rischi di credito, se compra debito italiano si deve assicurare di poterlo rivendere sul mercato. La garanzia è che la zona euro non esploda, che gli stati non facciano default. Questa condizione è da conservare. Anche un certo grado di sorveglianza, visto che si condivide il fardello ci deve essere il controllo, un coordinamento e scelte politiche discusse assieme. Anche l’Italia sta crollando sotto i colpi del rigore. L’Italia è un caso emblematico, con una strategia di bilancio controproducente. Il problema dell’Italia non è il consolidamento, il bilancio è in eccedente primario, con un deficit del 2-3%. Il problema è il debito e i tassi di interesse elevati. Si risolve non con i tagli, ma con il ritorno della crescita e la garanzia di tassi più bassi, che eliminerebbe il problema della sostenibilità del debito. Ci vorrebbe una traiettoria più ragionevole, che mettesse fine a sforzi vani e costosi.
Terra Santa Libera

Il folle progetto sionista si realizzerá con la pulizia etnica locale e la ricostruzione del tempio sul Monte Moriah

noisuXeroi

loading a new life ... please wait .. loading...

#OgniBambinaSonoIo

dalla parte delle bambine

Il Golem Femmina

Passare passioni, poesia, bellezza. Essere. Antigone contraria all'accidia del vivere quotidiano

esorcista di farfalle

Se i tempi non chiedono la tua parte migliore inventa altri tempi. (Baolian, libro II, vv. 16-17)

lafilosofiAmaschiA

filosofia d'altro genere per la scuola

S P A C E P R E S S

Il Blog libero da condizionamenti politici.

donnemigranti

"dall’Africa ‘o Mediterraneo st’anema nun se ferma maje.."

non lo faccio più

un luogo dove raccontare di violenza, di relazioni, di paure e d'amore.

femminile plurale

"Le persone istupidiscono all'ingrosso, e rinsaviscono al dettaglio" (W. Szymborska)

Al di là del Buco

Critica femminista, bollettino di guerra su femminicidi e violenza di genere

Michele (Caliban)

Perfidissimo Me

Abner Rossi Blog Ufficiale

Teatro, Poesia, Spettacoli

ACCENDI LA VITA

Pensieri, parole and every day life

CodiceSociale

Se è illegale per un uomo provvedere a se stesso, come si può pretendere da lui che resti nel giusto…?!

Ombreflessuose

L'innocenza non ha ombre

Cose da Blog

. . . accordi disordinati di una musica interiore