Archive for luglio, 2012


il manifesto 2012.07.29 – 01 PRIMA PAGINA

Il nostro appello e l’ordine del discorso

EDITORIALE – Alberto Burgio

Immaginiamo che al tempo della disputa tra geocentrici ed eliocentrici esistesse già un sistema dell’informazione simile all’attuale (televisioni, quotidiani e rotocalchi). E supponiamo che dalla vittoria degli uni o degli altri dipendessero le condizioni di vita della gente che da quelle televisioni e da quei giornali veniva informata. Come giudicheremmo, in questa ipotesi, una informazione che avesse sistematicamente nascosto la disputa e, per esempio, rappresentato la realtà sempre e soltanto sulla base della teoria geocentrica? Di questo, a mio modo di vedere, si tratta nella lettera sul “Furto d’informazione” che abbiamo inviato a molte agenzie di stampa e ad alcuni giornali nei giorni scorsi e che il manifesto (soltanto il manifesto) ha pubblicato integralmente in prima pagina. Il tema della nostra denuncia è l’«ordine del discorso pubblico» sulla crisi. Un tema concretissimo e materiale, produttivo di fatti altrettanto concreti, che recano nomi illustri: senso comune, ideologia, consenso. Naturalmente la crisi è fatta di dinamiche economico-finanziarie, alla base delle quali operano, sul piano nazionale e «globale», determinati assetti di potere e una determinata struttura dei processi di produzione e circolazione. Su questo terreno si sono verificate, a partire dal 2007, le vicende che hanno innescato la tempesta finanziaria. Ma la questione che subito si pone – basta un attimo per comprenderlo – è che qualunque cosa si dica a questo riguardo è frutto di interpretazioni. Soltanto persone faziose, intolleranti come Giuliano Ferrara possono pretendere che un’opinione (la loro) sia «oggettiva» e inoppugnabile. Chiunque altro converrà che ogni narrazione implica assunzioni teoriche, ipotesi e, appunto, interpretazioni. Nel caso della crisi, semplificando al massimo, si fronteggiano due schemi interpretativi. Il primo, mainstream e prevalente sul piano politico, riconduce la crisi a due cause: la crisi fiscale (dovuta a un eccesso di spesa pubblica – i cosiddetti sprechi – in materia di welfare e di pubblico impiego) e la sproporzione tra retribuzioni e produttività del lavoro. Da qui fa discendere, a catena, la crisi dei debiti sovrani, i severi verdetti delle agenzie di rating e le decisioni dei mercati finanziari. Dopodiché la terapia è scontata: essa impone una «rigorosa» politica di tagli (santificata nel fiscal compact), licenziamenti e blocco delle assunzioni, deflazione salariale, privatizzazioni e alienazione del patrimonio pubblico, riduzione delle tutele e dei diritti del lavoro dipendente. L’idea-base di questa visione (coerente col discorso sulle «compatibilità» che da venticinque anni fa proseliti anche a sinistra) è che da mezzo secolo viviamo (più precisamente: la massa dei lavoratori dipendenti vive) «al di sopra delle nostre possibilità». La speranza che la informa è che il «risanamento» della finanza pubblica «rassicuri» i mercati e plachi la fame degli speculatori. O meglio: che questi scelgano altri obiettivi, posto che speculare è la loro ragion d’essere. L’altra interpretazione della crisi, familiare ai lettori di questo giornale, rovescia la prospettiva. Sostiene che la crisi sia figlia dell’assenza di regole al movimento del capitale industriale (delocalizzazioni) e finanziario (speculazione), della povertà dei corpi sociali (provocata proprio dalle «terapie» propugnate dalla prima ipotesi) e della socializzazione delle perdite dei privati (a cominciare dalle banche, alle quali gli Stati hanno regalato migliaia di miliardi di euro, 4600 nella sola eurozona). Afferma che, lungi dall’essere giudici imparziali, le agenzie di rating lavorano per la privatizzazione delle democrazie (in quanto i governi obbediscono alle loro decisioni), oltre a spianare la strada alla speculazione. Ritiene che le politiche adottate dai governi servano soltanto a drenare enormi ricchezze verso le oligarchie finanziarie. E suggerisce misure di tutt’altro segno: regolazione dei mercati (non c’è bisogno di essere in tutto d’accordo con Lenin per avere una buona opinione degli accordi di Bretton Woods); una riforma della Bce che ne faccia una vera banca centrale (come la Fed e la Bank of England, che dal 2008 acquistano massicciamente i rispettivi titoli di Stato); incremento dell’occupazione (a cominciare dal settore ambientale, dal welfare e dalla formazione) e riduzione dell’orario di lavoro per accrescere la domanda aggregata; equità fiscale (anche per mezzo di prelievi strutturali su patrimoni e rendite); drastica riduzione della spesa militare. Sottesa a questa prospettiva è la tesi enunciata di recente da Amartya Sen, secondo il quale questa crisi non è il sintomo del fallimento degli Stati, bensì l’effetto del fallimento del mercato, che gli Stati hanno provveduto a salvare. Quanto alle proposte (da tempo avanzate da autorevoli studiosi, tra cui Luciano Gallino, Giorgio Lunghini e Guido Rossi), esse dimostrano come la stucchevole litania che ne lamenta l’assenza rientri nella sistematica disinformazione che abbiamo denunciato. Ora, poniamo che questa pedestre sintesi sia accettabile: che cosa ne discende riguardo alle questioni poste dalla nostra lettera? Una conseguenza molto semplice che, come ha osservato Carlo Freccero, chiama in causa direttamente i compiti dell’informazione e, indirettamente, la qualità della nostra democrazia e le relazioni pericolose tra potere economico e potere politico al tempo della «neoliberismo globalizzato». Se è vero che esistono due letture della crisi, di entrambe queste letture la stampa ha il dovere di tenere conto. Questo dovere incombe in primo luogo sul servizio pubblico (in Italia, la Rai) e sulle maggiori testate indipendenti, sempre che esse intendano assolvere una funzione nazionale e non operare come partiti politici. Tenere conto della presenza di due posizioni contrapposte significa, in questo caso, non presentare quelle dei governi europei e delle istituzioni comunitarie come risposte obbligate, bensì, se non altro, spiegare che si tratta di scelte coerenti con una di queste posizioni, e da essa imposte. Quando un governo decide di tagliare ancora le pensioni, di cancellare l’art. 18 dello Statuto dei lavoratori, di «rivedere la spesa» riducendo posti di lavoro e servizi, di aumentare la pressione fiscale sul lavoro dipendente e di alienare il patrimonio pubblico, la stampa libera di un paese democratico ha il preciso dovere di spiegare al pubblico dei non addetti ai lavori che ciò non avviene perché «c’è la crisi», ma perché questo governo considera indiscutibile la sovranità dei mercati e ritiene giusto subordinarle ogni altro interesse. Dopodiché tutto il dibattito su chi è tecnico e chi politico andrebbe, come merita, dritto in archivio. Ognuno vede che – fatte pochissime eccezioni – l’informazione non assolve questo dovere, che probabilmente nemmeno riconosce. La nostra lettera ha denunciato tale stato di cose, sottolineandone la rilevanza sul terreno democratico. E proprio perché siamo convinti del nesso che lega informazione e democrazia, abbiamo chiamato in causa anche le massime autorità dello Stato, che a nostro giudizio rischiano di venir meno all’obbligo di imparzialità nella misura in cui offrono il proprio incondizionato sostegno alle scelte politiche del governo, sposandone, per ciò stesso, le legittime ma discutibili opzioni teoriche. Siamo ingenui? Ignoriamo che tutto ciò non avviene per caso? È probabile che ogni denuncia sconti un po’ d’ingenuità, ma saremmo imperdonabili qualora ritenessimo che un appello all’onestà intellettuale possa risolvere ogni problema. Vi è tuttavia un eccesso di realismo in chi ritiene inevitabile che la stampa («l’avversario») sia reticente o faziosa. Non è scritto che il servizio pubblico debba condurre battaglie di parte, e comunque non è accettabile e va denunciato. Altrimenti perché indignarsi per le censure e la disinformazione che spesso, a ragione, gli imputiamo? E perché cercare di impedirle? Quanto alla stampa indipendente, anch’essa ha qualche problema di legittimazione, e non potrebbe rivendicare apertamente il diritto di nascondere ai propri lettori una parte significativa della verità. Tra l’ingenuità e un iperrealismo che rischia di regalare alibi alla disinformazione, preferiamo credere che il confronto delle idee comporti una sfida impegnativa per tutti. Non per caso il silenzio (quello di chi semplicemente preferisce ignorare tutta questa discussione) resta la via più comoda, anche se di certo non la più nobile.

Un'altra Donna. L'impudenza dello sguardo.

Nel cinquantesimo anniversario della scomparsa (il 5 agosto 1962) torna il monologo Bye Baby Suite scritto da Chiara Guarducci e diretto e recitato da Alessia Innocenti, per l’occasione in una suite dell’Albergo Pietrasanta al Festival della Versiliana.

Con l’occasione sarà esposta la serie fotografica After the last sitting, il tributo mio e di Alessia  alla leggendaria ultima seduta fotografica di Marilyn con il fotografo Bert Stern.

Le date: 2/3/4/5 Agosto ore 21 e 22,15.

Prenotazioni allo 0584265757 oppure on line dal sito TicketOne.

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 Io sto con Antonio Ingroia  

Anche noi siamo partigiani della Costituzione!

 

La dichiarazione del magistrato Antonio Ingroia

(“Confesso, non mi sento un magistrato del tutto imparziale, ma un partigiano della Costituzione. Tra chi la difende e chi, quotidianamente, cerca di violarla, violentarla, stravolgerla, so da che parte stare.”)

che in un paese civile sarebbe stata giudicata quasi ovvia,… ha suscitato invece scandalo.

Chi lo accusa dovrebbe spiegarci: da che parte dovrebbe stare un magistrato se non da quella della legge fondamentale dello Stato?

Qualcuno potrebbe obiettare che se criticabile non è il contenuto della dichiarazione, lo è invece la sede nella quale è stata pronunciata: il congresso di un partito, non un partito qualunque ma lo “scandaloso” partito comunista (il Pdci, per l’esattezza).

Anche qui si preferisce esultare per la smoking gun, un’ulteriore prova dell’esistenza delle toghe rosse, dimenticando che la Costituzione riconosce a tutti, anche ai magistrati, il diritto di manifestare liberamente il proprio pensiero.

Ma chi ha gridato allo scandalo non sembra preoccuparsi troppo della Costituzione.

Noi ce ne preoccupiamo, invece, e anche noi ci dichiariamo con orgoglio “partigiani della Costituzione”.

Sez.ANPI M.Musu-M.T.Regard 2° Municipio

IL PANICO

Un articolo illuminante, da leggere e diffondere, del premio Nobel Paul Krugman, uscito in questi giorni sul New York Times. Come è ormai chiaro a tutti Krugman spiega perché le politiche di austerity non hanno senso dal punto di vista economico, al contrario: l’austerity è solo la scusa per smantellare i programmi sociali su scala globale. Ecco l’articolo:

L’AGENDA DELL’AUSTERITY

“Il tempo giusto per le misure di austerità è durante un boom, non durante la depressione”. Questo dichiarava John Maynard Keynes 75 anni fa, ed aveva ragione. Anche in presenza di un problema di deficit a lungo termine (e chi non ce l’ha?), tagliare le spese quando l’economia è profondamente depressa è una strategia di auto-sconfitta, perché non fa altro che ingrandire la depressione.

Allora come mai la Gran Bretagna (e l’Italia, la Grecia, la Spagna, ecc. NDR) sta facendo esattamente quello che non dovrebbe fare? Al contrario di paesi come la Spagna, o la California, il governo britannico può indebitarsi liberamente, a tassi storicamente bassi. Allora come mai sta riducendo drasticamente gli investimenti, ed eliminando centinaia di migliaia di lavori nel settore pubblico, invece di aspettare che l’economia recuperi?

Nei giorni scorsi, ho fatto questa domanda a vari sostenitori del governo del primo ministro David Cameron. A volte in privato, a volte in TV. Tutte queste conversazioni hanno seguito la stessa parabola: sono cominciate con una metafora sbagliata, e sono terminate con la rivelazione di motivi ulteriori (alla ripresa economica NDR).

La cattiva metafora – che avrete sicuramente ascoltato molte volte – equipara i problemi di debito di un’economia nazionale, a quelli di una famiglia individuale. La storia, pressappoco è questa: Una famiglia che ha fatto troppi debiti deve stringere la cinghia, ed allo stesso modo, se la Gran Bretagna ha accumulato troppi debiti – cosa che ha fatto, anche se per la maggior parte si tratta di debito privato e non pubblico – dovrebbe fare altrettanto!

Cosa c’è di sbagliato in questo paragone?

La risposta è che un’economia non è come una famiglia indebitata. Il nostro debito è composto in maggioranza di soldi che ci dobbiamo l’un l’altro; cosa ancora più importante: il nostro reddito viene principalmente dal venderci cose a vicenda. La tua spesa è il mio introito, e la mia spesa è il tuo introito.

E allora cosa succede quando tutti, simultaneamente, diminuiscono le proprie spese nel tentativo di pagare il debito? La risposta è che il reddito di tutti cala – il mio perché tu spendi meno, il tuo perché io spendo meno.- E mentre il nostro reddito cala, il nostro problema di debito peggiora, non migliora.

Questo meccanismo non è di recente comprensione. Il grande economista americano Irving Fisher spiegò già tutto nel lontano 1933, e descrisse sommariamente quello che lui chiamava “deflazione da debito” con lo slogan:”Più i debitori pagano, più aumenta il debito”. Gli eventi recenti, e soprattutto la spirale di morte da austerity in Europa, illustrano drammaticamente la veridicità del pensiero di Fisher.

Questa storia ha una morale ben chiara: quando il settore privato sta cercando disperatamente di diminuire il debito, il settore pubblico dovrebbe fare l’opposto, spendendo proprio quando il settore privato non vuole, o non può. Per carità, una volta che l’economia avrà recuperato si dovrà sicuramente pensare al pareggio di bilancio, ma non ora. Il momento giusto per l’austerity è il boom, non la depressione.

Come ho già detto, non si tratta di una novità. Allora come mai così tanti politici insistono con misure di austerity durante la depressione? E come mai non cambiano piani, anche se l’esperienza diretta conferma le lezioni di teoria e della storia?

Beh, qui è dove le cose si fanno interessanti. Infatti, quando gli “austeri” vengono pressati sulla fallacità della loro metafora, quasi sempre ripiegano su asserzioni del tipo: “Ma è essenziale ridurre la grandezza dello Stato”.

Queste asserzioni spesso vengono accompagnate da affermazioni che la crisi stessa dimostra il bisogno di ridurre il settore pubblico. Ciò e manifestamente falso. Basta guardare la lista delle nazioni che stanno affrontando meglio la crisi. In cima alla lista troviamo nazioni con grandissimi settori pubblici, come la Svezia e l’Austria.

Invece, se guardiamo alle nazioni così ammirate dai conservatori prima della crisi, troveremo che George Osborne, ministro dello scacchiere britannico e principale architetto delle attuali politiche economiche inglesi, descriveva l’Irlanda come “un fulgido esempio del possibile”. Allo stesso modo l’istituto CATO (think tank libertario americano) tesseva le lodi del basso livello di tassazione in Islanda, sperando che le altre nazioni industriali “imparino dal successo islandese”.

Dunque, la corsa all’austerity in Gran Bretagna, in realtà non ha nulla a che vedere col debito e con il deficit; si tratta dell’uso del panico da deficit come scusa per smantellare i programmi sociali. Naturalmente, la stessa cosa sta succedendo negli Stati Uniti.

In tutta onestà occorre ammettere che i conservatori inglesi non sono gretti come le loro controparti americane. Non ragliano contro i mali del deficit nello stesso respiro con cui chiedono enormi tagli alle tasse dei ricchi (anche se il governo Cameron ha tagliato l’aliquota più alta in maniera significativa). E generalmente sembrano meno determinati della destra americana ad aiutare i ricchi ed a punire i poveri. Comunque, la direzione delle loro politiche è la stessa, e fondamentalmente mentono alla stessa maniera con i loro richiami all’austerity.

Ora, la grande domanda è se il fallimento evidente delle politiche di austerità porterà alla formulazione di un “piano B”. Forse. La mia previsione è che se anche venissero annunciati piani di rilancio, si tratterà per lo più di aria fritta. Poiché il recupero dell’economia non è mai stato l’obiettivo; la spinta all’austerity è per usare la crisi, non per risolverla. E lo è tutt’ora.

Paul Krugman

Qui l’articolo originale

Triskel182

Sanzioni per chi non rispetta i tempiL’emendamento al decreto Sviluppo. Oggi il voto di fiducia.

ROMA — Tempi duri per il pubblico dipendente che non completi un procedimento nei tempi prescritti. Un emendamento al decreto Sviluppo, presentato dai relatori Alberto Fluvi (Pd) e Raffaello Vignali (Pdl) con il parere favorevole del governo e approvato in commissione, introduce il suo immediato deferimento ai fini della valutazione che conduce alla sanzione.
Un inasprimento di quanto già previsto dal decreto Semplificazioni di febbraio, che aveva innovato introducendo la figura del dirigente con potere sostitutivo nei confronti del dipendente che non rilasci atti nei tempi previsti. Un sostituto attivabile dal cittadino con denuncia. La norma di cinque mesi fa stabiliva che, a fine anno, il dirigente dovesse tirare le somme rispetto ai dipendenti ritardatari, facendo scattare le sanzioni.

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Triskel182

In quarta elementare, quando le maestre proposero alla classe d’interpretare l’ennesima fiaba di Andersen per la recita di fine anno, un gruppetto di scolarette dissidenti di cui facevo orgogliosamente parte alzò la mano in segno di protesta.
Era il 1993. Le nostre insegnanti sgranarono gli occhi. Noi, con l’impertinenza tipica dei nove anni, ribattemmo che no, non volevamo saperne di principi e principesse. «Benissimo» risposero loro «organizzatevela voi, la recita “alternativa”».

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LE INTERCETTAZIONI

Il ricatto di Mancino e i dubbi sullo scontro Napolitano-Procura di Palermo

Il ricatto di Mancino e i dubbi sullo scontro Napolitano-Procura di Palermo

ROMA, 24 LUGLIO 2012 – Ho bisogno di aiuto. E lo dico senza alcuna vergogna. Ho bisogno che qualcuno mi aiuti a capire come funziona il sistema che tiene in equilibrio il potere istituzionale italiano. Perché io avevo sempre pensato che il Presidente della Repubblica avesse un determinato ruolo nel nostro ordinamento.Adesso, invece, ho scoperto che un semplice ex ministro dalla memoria corta ed indagato per falsa testimonianza può permettersi il lusso di trattare quella che dai libri di diritto rimane la più alta figura istituzionale a mo’ di maggiordomo, imponendogli – dietro un non troppo velato ricatto – il suo volere. Come chiamare, se non “ricatto”, quella considerazione che Nicola Mancino fa al telefono con il magistrato Loris D’Ambrosio – tra i principali consiglieri di Giorgio Napolitano – denunciando di essere rimasto solo e, come tale, meritevole di protezione in quanto, in caso contrario «potrebbe chiamare in causa altre persone»?

Un’altra cosa che non capisco è se questo potere che si arroga Mancino dipenda dal caso particolare o dal poco rispetto di alcuni esponenti politici verso le istituzioni. Mi spiego meglio: è fatto storico che le istituzioni di questo paese siano state utilizzate da più di un loro esponente per scopi che di istituzionale avevano ben poco, ma forse – come scriveva qualche giorno fa Valter Rizzo sul Fatto Quotidiano – il problema non è nelle istituzioni in quanto tali, ma negli individui chiamati a rappresentarle. «sono personalmente convinto» – scriveva Rizzo– «che entrambi [gli ex presidenti Einaudi e Pertini, ndr], di fronte a telefonate come quelle di Mancino avrebbero attaccato il telefono, mandando l’interlocutore a farsi benedire. Perché l’attuale inquilino del Quirinale non l’ha fatto?»

Veniamo così al punto centrale dello scontro tra Giorgio Napolitano e la Procura di Palermo, le intercettazioni. Ed anche qui arrivano i dubbi. Innanzitutto sulla ricostruzione fatta dal Quirinale, laddove si scomodano predecessori – Luigi Einaudi, appunto – a futura memoria, per evitare che possano crearsi pericolosi precedenti «grazie ai quali accada o sembri accadere che egli [Napolitano, ndr] non trasmetta al suo successore immuni da qualsiasi incrinatura le facoltà che la Costituzione gli attribuisce», come si legge nella nota ufficiale emessa. Ragioniamoci un attimo: se io parlo al telefono non posso sapere se il mio interlocutore è intercettato o  meno. Se ciò avviene, cioè se parlo con qualcuno il cui telefono è posto sotto intercettazione come nel caso del telefono dell’ex ministro dell’Interno, logica vuole che quello che dirò entrerà automaticamente nel materiale intercettato, indipendentemente dagli argomenti della telefonata. Sempre secondo logica, dunque, intercettare il sottoscritto o l’inquilino del Quirinale è «un fatto imprevedibile», come lo ha definito il procuratore capo di Palermo Francesco Messineo. “Intercettazione indiretta”, si chiama.

A questo punto qualcuno potrà obiettare che il problema reale riguarda la distruzione delle intercettazioni medesime, stanti l’articolo 90 della Costituzione e l’articolo 7 della legge numero 219 del 5 giugno 1989. Ma allora per quale motivo la stessa irritazione Napolitano non l’ha mostrata – come ha scritto Giuseppe Caporale su Repubblica – anche nel 2009, quando il Raggruppamento operativo speciale di Firenze ha ascoltato una telefonata di Napolitano a Guido Bertolaso, intercettato nell’ambito dell’inchiesta sul G8 alla Maddalena. Nelle due telefonate Napolitano chiede notizie delle vittime ed organizza la sua doppia visita ne L’Aquila del dopo terremoto. «Le intercettazioni di Napolitano tuttora sono contenute in un cdrom che non è stato mai formalmente sbobinato, ma che è comunque a disposizione delle parti», scrive Caporale.

Che forse quelle intercettazioni non abbiano solleticato i nervi dell’inquilino del Quirinale perché in quelle due telefonate Napolitano fa buona impressione mentre in quelle di Palermo no? Le intercettazioni fiorentine non hanno poi avuto alcuna rilevanza penale, così come quelle palermitane, stando a quanto riferito ai mezzi di informazione da Messineo ed Ingroia. Allora perché questo diverso trattamento? Comportandosi in maniera così stizzita, il Presidente della Repubblica non fa altro che alimentare l’ipotesi secondo la quale nelle conversazioni con Mancino ci siano delle cose “losche” – seppur irrilevanti a fini penali – delle quali è bene tenere all’oscuro l’opinione pubblica. Ipotesi che, naturalmente, in questo momento non può essere né confermata né smentita. Non vorrei che alla fine avesse davvero ragione Salvatore Borsellino, che ci sia cioè bisogno di «difendere i magistrati vivi, che potrebbero essere i prossimi ad essere uccisi». Antonio Ingroia, intanto, sono già riusciti a toglierlo dalle indagini sulla trattativa, avendo ormai dato per certo il suo prossimo impiego – annuale – in Guatemala.

Non vorrei, infine, che questo lavoro ai fianchi di una parte delle istituzioni verso il pool di Palermo sia una nuova edizione di quel vecchio tentativo di frenare quello stesso gruppo di magistrati quando a farne parte era Giovanni Falcone, il cui lavoro veniva spesso accusato di crear danno all’economia siciliana, dove al posto dell’economia oggi da tutelare c’è il sistema degli equilibri istituzionali.

(foto: ienesiciliane.it) Andrea Intonti [http://senorbabylon.blogspot.it]

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