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Sorgente: I ragazzi dell’Intifada

L’accusa di Amnesty a Israele: “Crimini di guerra a Gaza”. Tel Aviv: “Falsificano la realtà”

La replica dello Stato ebraico: “Dossier lacunoso, sono ossessionati da noi”. Per l’organizzazione umanitaria tra il primo e il 4 agosto scorso a Rafah avvenne una “carneficina” ingiustificata con 135 palestinesi uccisi: “Forse crimini contro l’umanità”. Netanyahu approva nuovi insediamenti israeliani in Cisgiordania

29 luglio 2015

GERUSALEMME – Prima è arrivata la relazione della Commissione d’inchiesta delle Nazioni Unite che aveva parlato di “possibili crimini di guerra” da parte di Israele (ma anche dei gruppi armati palestinesi) nella guerra della scorsa estate tra Hamas e lo Stato ebraico che ha provocato 1462 vittime civili tra i palestinesi e 6 tra gli israeliani.

Oggi arrivano le accuse ancora più dure da parte di Amnesty International: secondo l’organizzazione umanitaria le forze armate israeliane si sarebbero macchiate di crimini di guerra la scorsa estate nel corso di attacchi aerei e terrestri lanciati in zone abitate a Rafah (Gaza).

Dura la reazione dello Stato ebraico che respinge con forza le accuse. “Amnesty International falsifica la realtà nel suo rapporto sui combattimenti di un anno fa a Gaza” afferma il ministero degli Esteri israeliano, secondo cui il rapporto è lacunoso “nella metodologia, nella ricostruzione dei fatti, nelle analisi e nelle conclusioni”. Amnesty, sostiene il ministero, “ancora una volta dimostra la propria ossessione verso Israele”.

Striscia di Gaza, la storia del conflitto in un minuto

L’accusa verso Israele è contenuta in un rapporto presentato oggi a Gerusalemme nel quale Amnesty non esclude che le azioni dell’esercito israeliano possano essere bollate anche come “crimini contro l’umanità”. Nel dettaglio sono stati analizzati i fatti tra l’1 e il 4 agosto quando a Rafah furono uccisi 135 palestinesi fra cui 75 minorenni dopo che un ufficiale israeliano era caduto in agguato di Hamas, una “carneficina”. Secondo Amnesty “Israele agì con una terribile indifferenza verso le vite umane civili, e lanciò attacchi sproporzionati ed indiscriminati”.

I ricercatori di Amnesty, che non sono potuti entrare nella Striscia perchè impediti da Israele, si sono avvalsi di tecniche investigative e di analisi sofisticate, messe a punto un team di ricercatori (Forensic Architecture) nell’Università di Londra. Si sono basati fra l’altro sull’analisi approfondita di fotografie, su filmati video e su testimonianze oculari.

Per l’organizzazione umanitaria le autorità israeliane non hanno condotto “indagini credibili, indipendenti ed imparziali”. Amnesty chiede che “quanti sono sono sospettati di aver ordinato o commesso crimini di guerra” siano perseguiti.

Mentre Amnesty accusa Israele, il governo di Benjamin Netanyahu continua la politica degli insediamenti in Cisgiordania: oggi il premier israeliano ha approvato la costruzione “immediata” di 300 alloggi nella colonia cisgiordana di Beit El, insediamento alla periferia nord di Ramallah, teatro negli ultimi giorni di duri scontri tra forze di sicurezza e coloni. Inoltre è stato comunicato l’avvio della pianificazione per ulteriori cinquecento alloggi a Gerusalemme Est.

Stamattina la Corte suprema di Gerusalemme ha confermato la demolizione entro domani di due condomini costruiti abusivamente proprio a Beit El, scatenando l’ira della destra nazionalista e del partito di estrema destra Focolare ebraico.

 

18 ago 2014

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Si è irrigidita ulteriormente la posizione israeliana. Anche Hamas ribadisce le sue condizioni ma in casa palestinese ormai non si parla più ad una sola voce. Abu Mazen vuole accogliere la proposta egiziana di cessate il fuoco

Macerie a Beit Lahiya (Foto: Khalil Hamra/AP)

AGGIORNAMENTI

ORE 11 Oltre 2000 i palestinesi uccisi dall’offensiva israeliana “Margine Protettivo”

Il numero di palestinesi uccisi dall’inizio dell’offensiva “Margine Protettivo” contro Gaza ora supera i 2.000, secondo i calcoli fatta dall’agenzia di stampa al-Ray. I morti accertati sono 2.016, mentre i feriti sono stimati in 10.193. La maggior parte degli uccisi – sottolinea l’agenzia – sono bambini, donne e anziani. Altre fonti, come le Nazioni Unite, riferiscono un bilancio leggermente inferiore. Israele da parte sua afferma che circa la metà dei morti palestinesi sarebbero combattenti di Hamas e di altre formazioni armate. Una versione seccamente smentita dai palestinesi.

ORE 9.30 Conferenza donatori dopo tregua duratura

Il governo norvegese ha annunciato che i paesi donatori si riuniranno al Cairo per finanziare la ricostruzione di Gaza quando sarà raggiunto un cessate il fuoco duraturo tra Israele e i palestinesi.    I fondi raccolti saranno versati al presidente dell’Autorità nazionale palestinese Abu
Mazen, ha precisato Boerge Brende, il ministro degli esteri norvegese, che presiede il comitato di coordinamento degli aiuti internazionali.

———————————————————————————————————————————————————————– redazione

Gerusalemme, 18 agosto 2014, Nena News  – A mezzanotte termina la tregua di cinque giorni e nessuno – ne’ i dirigenti israeliani ne’ i palestinesi – sanno dire se subito dopo a Gaza riprenderanno i bombardamenti israeliani e i lanci di razzi o se un nuovo cessate il fuoco consentirà la continuazione delle trattative al Cairo. Al momento il governo del premier Netanyahu e il movimento islamico Hamas sembrano escludere la possibilità di un accordo sulla base dell’ultima proposta presentata alle parti dall’Egitto.

Ieri Netanyahu ha avvertito che Hamas ”non può sperare di compensare una sconfitta militare con un successo politico”. E ha ribadito che il suo governo respingerà ogni proposta che non tenga nel dovuto conto gli interessi di sicurezza di Israele, in evidente riferimento alla richiesta israeliana del “disarmo completo di Gaza”.

Immediata la replica del portavoce di Hamas, Sami Abu Zuhri, che ha negato “l’indebolimento” del movimento islamico e ha previsto nuovi combattimenti, questa volta ad Ashqelon, ossia in territorio israeliano. Un alto dirigente di Hamas, Musa Abu Marzouq, ha  detto che l’irrigidimento di Israele riporta tutto il negoziato “al punto di partenza”. Abu Marzouq ha escluso un ulteriore prolungamento della tregua alla mezzanotte.

Da Gerusalemme fanno sapere che l’esercito è pronto a sferrare un nuovo durissimo attacco. E’ già stato dato l’ordine di sospendere da oggi i collegamenti ferroviari tra Ashqelon e Sderot, vicino a Gaza,  dove si attendono lanci di razzi palestinesi.  Il ministro per le questioni strategiche Yuval Steinitz ha escluso categoricamente che Israele possa accogliere la richiesta di Hamas per la costruzione di un porto a Gaza che, a suo dire, diventerebbe un “duty-free per i missili iraniani”.

Presto andrà al Cairo il presidente palestinese Abu Mazen che esorta le parti di accettare la proposta egiziana. Il leader dell’Anp è il più interessato a un accordo immediato di cessate il fuoco, anche se saranno accolte ben poche delle richieste presentate dai palestinesi. Il piano egiziano prevede che  siano proprio le sue forze a prendere il controllo dei valichi (sul versante palestinese) con Israele e l’Egitto, e a monitorare l’ingresso e la distribuzione degli aiuti alla popolazione e dei materiali necessari per la ricostruzione.

  Al momento la prospettiva più concreta è la ripresa della guerra di attrito tra Israele e Hamas vista nei giorni scorsi tra una tregua e l’altra. Nena News

 
 
 
 
 

—  Michele Giorgio, GERUSALEMME, 11.8.2014

Tiene la nuova tre­gua di 72 ore scat­tata a mez­za­notte tra dome­nica e lunedì e al Cairo ieri sono giunti anche i dele­gati del governo Neta­nyahu. E’ per­ciò ripar­tito il nego­ziato indi­retto, con la media­zione degli egi­ziani, per un accordo di ces­sate il fuoco per­ma­nente. Senza grandi pos­si­bi­lità di suc­cesso in verità. In Israele tanti invo­cano l’escalation dell’offensiva mili­tare che pure ha già ucciso circa 2000 pale­sti­nesi, per 2/3 civili, e una ses­san­tina di sol­dati. E pro­prio intorno ai sol­dati entrati in mese scorso a Gaza cre­sce il mito di “Mar­gine Pro­tet­tivo”. A tal punto che va a ruba per­sino lo sperma dei mili­tari delle unità di com­bat­ti­mento. L’Ospedale Ram­bam di Haifa ha comu­ni­cato che da quando è comin­ciata la “nuova guerra” con­tro Gaza, un numero cre­scente di donne che si rivol­gono alla banca del seme fa richie­sta di dona­tori con un back­ground di com­bat­tenti. Sperma guer­riero per avere figli più forti. D’altronde lo stesso ospe­dale per­mette alle donne che desi­de­rano un bam­bino di poter sce­gliere un dona­tore con un pas­sato nelle unità scelte dell’Esercito.

«Il ser­vi­zio mili­tare rac­conta qual­cosa della per­sona», ha spie­gato al sito Ynet Dina Amin­pour, respon­sa­bile della banca del seme del Ram­bam Hospi­tal, «un uomo che ha ser­vito in un ruolo di com­bat­ti­mento ha una forte costi­tu­zione fisica che con­ferma le aspi­ra­zioni gene­ti­che delle donne (che vogliono un figlio, ndr)». Amin­pour ha aggiunto che una ses­san­tina di israe­liane si rivol­gono ogni mese alla banca del seme dell’ospedale. Negli ultimi giorni addi­rit­tura la metà ha chie­sto dona­tori con un pas­sato di com­bat­tente nell’Esercito, un requi­sito dive­nuto impor­tante come l’altezza e il livello di istruzione.

Al Cairo invece si decide della qua­lità della vita futura dei neo­nati di Gaza e del diritto di bam­bini e adulti di vivere una esi­stenza in dignità e libertà e non più in una pri­gione a cielo aperto. E’ una richie­sta di tutta la popo­la­zione che le varie forze poli­ti­che, quindi non solo Hamas, che com­pon­gono la dele­ga­zione pale­sti­nese hanno posto sul tavolo dei media­tori egi­ziani. Israele da parte sua insi­ste per la smi­li­ta­riz­za­zione della Stri­scia. Punti su cui entrambe le parti non inten­dono cedere. Dome­nica sera da Doha il lea­der dell’ufficio poli­tico di Hamas, Kha­led Meshaal, ha detto che una tre­gua dura­tura deve por­tare alla revoca del blocco alla Stri­scia di Gaza. Il ces­sate il fuoco di 72 ore rag­giunto  con Israele — ha spie­gato Meshaal all’agenzia Afp — «è uno dei mezzi o delle tat­ti­che desti­nate alla riu­scita dei nego­ziati o alla distri­bu­zione degli aiuti uma­ni­tari. Il nostro obiet­tivo è che le richie­ste pale­sti­nesi siano sod­di­sfatte e che la Stri­scia viva senza blocco». Un’intervista alla quale il governo Neta­nyahu ha rispo­sto con le dichia­ra­zioni del mini­stro per la sicu­rezza interna Yitz­hak Aha­ro­no­vich. «C’è poca spe­ranza di rag­giun­gere un accordo. Ci vor­rebbe un mago – ha com­men­tato il mini­stro — A mio giu­di­zio alla fine delle 72 ore si tor­nerà ai com­bat­ti­menti e Israele deve pen­sare al pas­sag­gio successivo».

L’incubo della ripresa della “guerra di attrito” vista negli ultimi giorni (almeno 15 morti tra i pale­sti­nesi, gran parte dei quali civili) o di una nuova pesante esca­la­tion mili­tare, grava sulla Stri­scia di Gaza men­tre le orga­niz­za­zioni uma­ni­ta­rie con­ti­nuano la distri­bu­zione agli sfol­lati. Tante fami­glie, appro­fit­tando della tre­gua, ieri sono tor­nate a casa. Ma chi la casa l’ha per­duta nei deva­stanti bom­bar­da­menti del mese scorso – circa 80mila per­sone, secondo fonti locali – non può fare altro che vivere nelle scuole dell’Unrwa.

Fio­ri­scono nel frat­tempo le ini­zia­tive inter­na­zio­nali a soste­gno dei pale­sti­nesi di Gaza e dei loro diritti. L’Ong turca IHH ha comu­ni­cato ieri di volere orga­niz­zare un nuovo con­vo­glio navale per rom­pere il blocco di Gaza attuato da Israele. La IHH aveva orga­niz­zato assieme alla Free­dom Flo­tilla la spe­di­zione del mag­gio 2010, bloc­cata in acque inter­na­zio­nali l’arrembaggio dai com­mando israe­liani saliti a bordo della nave Mavi Mar­mara (9 atti­vi­sti uccisi). Un assalto che aveva pro­vo­cato il gelo nelle rela­zioni fra Tel Aviv e Ankara che dura ancora oggi nono­stante un ten­ta­tivo di ricon­ci­lia­zione mediato l’anno scorso da Washing­ton, che aveva por­tato alle scuse di Israele e all’avvio di una trat­ta­tiva sull’indennizzo delle fami­glie delle vittime.

L’Associazione della stampa estera in Israele e nei Ter­ri­tori pale­sti­nesi occu­pati (Fpa), intanto pro­te­sta per i metodi che descrive come «poco orto­dossi» usati dalle auto­rità di Hamas e dai loro rap­pre­sen­tanti nei con­fronti dei gior­na­li­sti inter­na­zio­nali lo scorso mese a Gaza. «In molti casi – dice la Fpa — gior­na­li­sti stra­nieri sono stati mole­stati, minac­ciati o inter­ro­gati su sto­rie o infor­ma­zioni ripor­tate nei loro media o sui social media». La Fpa afferma di aver appreso che Hamas sta­rebbe cer­cando di met­tere in piedi una pro­ce­dura di ‘valu­ta­zione’ per sche­dare alcuni giornalisti.

—  Alain Gresh, 11.8.2014

Il Diplò d’agosto. Con quest’analisi di Alain Gresh, che racconta la tradizione di resistenza della popolazione palestinese, iniziamo a pubblicare alcuni articoli del Diplo di agosto: che questo mese non trovate in edicola come sempre in allegato, ma nelle pagine del quotidiano

Pri­vato della sua forza da Dalila che gli aveva tagliato i capelli, San­sone cadde nelle mani dei fili­stei – popolo dal quale nasce il nome «Pale­stina» –, che lo acce­ca­rono. Un giorno, lo fecero venire fra loro per deri­derlo: «San­sone cercò a tastoni i due pila­stri cen­trali che reg­ge­vano l’edificio. Si puntò con­tro di essi, con la destra e con la sini­stra, urlando: ‘Muoia San­sone con tutti i fili­stei!’ e poi spinse con tutta la sua forza. L’edificio crollò, tra­vol­gendo i capi dei fili­stei e tutti gli altri. Così, San­sone uccise più per­sone con la sua morte che in tutta la sua vita». Que­sto famoso epi­so­dio rife­rito dalla Bib­bia si svolge a Gaza, capi­tale dei fili­stei, popolo nemico degli ebrei.

Gaza è stata sem­pre un cro­ce­via nelle rotte com­mer­ciali fra Europa e Asia, fra Medio­riente e Africa. La città e il ter­ri­to­rio si sono dun­que tro­vati, fin dall’antichità, al cen­tro delle riva­lità fra le potenze dell’epoca, dall’Egitto dei faraoni all’Impero bizan­tino pas­sando per Roma. Là, nel 634 della nostra era, avvenne la prima vit­to­ria accer­tata sull’Impero bizan­tino da parte degli adepti di una reli­gione ancora sco­no­sciuta, l’islam; il pro­feta Mao­metto era morto due anni prima. Gaza rimase sotto il con­trollo musul­mano fino alla prima guerra mon­diale, con alcuni inter­ludi più o meno lun­ghi: regni cro­ciati; inva­sione mon­gola; spe­di­zione di Bona­parte. «Facile da pren­dere, facile da per­dere», spiega Jean-Pierre Filiu nel suo libro Histoire de Gaza (Fayard, Parigi, 2012), il più appro­fon­dito dedi­cato a que­sto ter­ri­to­rio. Il gene­rale bri­tan­nico Edmund Allenby strappò Gaza, porta della Pale­stina, all’Impero otto­mano il 9 novem­bre 1917, apren­dosi così la strada verso Geru­sa­lemme, dove entrò l’11 dicembre.

Per Lon­dra, non si trat­tava solo di bat­tere il sul­tano, alleato della Ger­ma­nia e dell’Impero austro-ungarico, ma di assi­cu­rarsi il con­trollo di un ter­ri­to­rio stra­te­gico e garan­tire la pro­te­zione del fianco est del canale di Suez, vena giu­gu­lare dell’impero, via di comu­ni­ca­zione vitale fra il vice­re­gno delle Indie e la metro­poli. I bri­tan­nici dun­que scon­fig­gono le ambi­zioni fran­cesi in Terra santa. Nel 1922, otten­gono il man­dato della Società delle Nazioni (Sdn) per ammi­ni­strare il ter­ri­to­rio che da allora viene chia­mato «Pale­stina», e al quale Gaza appar­tiene. Hanno anche il com­pito di appli­care la «dichia­ra­zione di Bal­four», cioè aiu­tare a creare una patria nazio­nale ebraica e inco­rag­giare l’immigrazione sio­ni­sta; lo fanno con zelo fino al 1939.

Gaza e la sua regione pren­dono parte a tutti i com­bat­ti­menti dei pale­sti­nesi, musul­mani e cri­stiani, con­tro la colo­niz­za­zione sio­ni­sta e con­tro la pre­senza bri­tan­nica. Con­tri­bui­scono alla grande rivolta pale­sti­nese del 1936–1939, schiac­ciata infine dai bri­tan­nici. Una scon­fitta che priva a lungo i pale­sti­nesi di una qual­si­vo­glia dire­zione poli­tica, lasciando ai governi arabi il com­pito – se così si può dire – di difen­dere la loro causa.

Il 15 mag­gio 1948, all’indomani della pro­cla­ma­zione dello Stato di Israele, gli eser­citi arabi entrano in Pale­stina. Prima guerra, prima disfatta araba. Il ter­ri­to­rio pre­vi­sto per lo Stato di Pale­stina dal piano di spar­ti­zione votato all’Assemblea gene­rale delle Nazioni unite, il 29 novem­bre 1947, va in fran­tumi. Israele annette una parte, la Gali­lea. La Gior­da­nia assorbe la riva occi­den­tale del Gior­dano, cono­sciuta come Cisgior­da­nia. La stri­scia di Gaza – un ter­ri­to­rio di 360 chi­lo­me­tri qua­drati che com­prende le città di Gaza, Khan You­nis e Rafah – passa sotto l’amministrazione mili­tare egi­ziana; resta l’unico ter­ri­to­rio pale­sti­nese sul quale non viene eser­ci­tata alcuna sovra­nità stra­niera. Agli ottan­ta­mila abi­tanti autoc­toni si sono aggiunti oltre due­cen­to­mila rifu­giati espulsi dall’esercito israe­liano, i quali vivono mise­ra­mente e sognano solo il ritorno a casa. Que­sta mas­sic­cia pre­senza di rifu­giati e lo sta­tus par­ti­co­lare del ter­ri­to­rio faranno di Gaza uno dei cen­tri del rina­sci­mento poli­tico palestinese.

Mal­grado il con­trollo da parte del Cairo – eser­ci­tato prima dal re, poi da Gamal Abdel Nas­ser e dagli «uffi­ciali liberi» che nel 1952 hanno rove­sciato la monar­chia –, i pale­sti­nesi si orga­niz­zano in modo auto­nomo, effet­tuano azioni di guer­ri­glia con­tro Israele, mani­fe­stano con­tro ogni ten­ta­tivo di inse­diare defi­ni­ti­va­mente a Gaza i rifu­giati. Già allora, Israele com­pie pesanti rap­pre­sa­glie, nelle quali si distin­gue per la sua bru­ta­lità un gio­vane uffi­ciale ancora sco­no­sciuto: Ariel Sha­ron.
Il 28 feb­braio 1955, Sha­ron comanda un raid con­tro Gaza che fa tren­ta­cin­que morti fra i sol­dati egi­ziani (oltre a ucci­dere due civili) e otto fra gli israe­liani. Il primo marzo, su tutto il ter­ri­to­rio si ten­gono grandi mani­fe­sta­zioni di pro­te­sta con­tro la pas­si­vità egi­ziana. Que­sto pro­duce una svolta nella poli­tica estera dell’uomo forte dell’Egitto, Nas­ser. Fino ad allora con­si­de­rato da molti suoi con­cit­ta­dini piut­to­sto vicino agli Stati uniti, egli decide, in piena guerra fredda, di avvi­ci­narsi a Mosca. Men­tre si reca alla con­fe­renza di Ban­dung che, nel marzo 1955, segna la nascita del Movi­mento dei non alli­neati, Nas­ser incon­tra il mini­stro degli esteri cinese Ciu en Lai, anch’egli in pro­cinto di recarsi alla con­fe­renza; gli chiede se i sovie­tici accet­te­reb­bero di dare armi al suo paese. La rispo­sta si fa atten­dere, ma infine il 30 set­tem­bre 1955 è annun­ciato l’accordo per la con­se­gna di arma­menti ceco­slo­vac­chi. Così, l’Urss spezza il mono­po­lio occi­den­tale della ven­dita di armi al Medio­riente, ed entra in modo ecla­tante sulla scena regionale.

Inol­tre Nas­ser lascia ai pale­sti­nesi di Gaza mag­giore libertà di orga­niz­zarsi in gruppi com­bat­tenti. Il 26 luglio 1956, il rais nazio­na­lizza la com­pa­gnia del canale di Suez. Ne segue l’aggressione tri­par­tita con­tro l’Egitto da parte di Israele, Fran­cia e Gran bre­ta­gna, che si con­clude con la con­qui­sta del Sinai e della stri­scia di Gaza. Que­sta rimane sotto il con­trollo israe­liano fino al marzo 1957.

La resi­stenza clan­de­stina si orga­nizza. Il bilan­cio umano dell’occupazione è par­ti­co­lar­mente pesante, con molti mas­sa­cri di civili com­piuti dall’«esercito più etico del mondo». Ad esem­pio, a Khan You­nis, decine di per­sone ven­gono alli­neate con­tro un muro e uccise a mitra­gliate; altre sono abbat­tute a colpi di pistola. Il bilan­cio è fra due­cen­to­set­tan­ta­cin­que e cin­que­cento per­sone uccise.
Quando Israele, soprat­tutto su pres­sione sta­tu­ni­tense, libera il Sinai e Gaza, Nas­ser e il nazio­na­li­smo arabo rivo­lu­zio­na­rio sono all’apice della popo­la­rità. Nei campi di rifu­giati, la nuova gene­ra­zione pale­sti­nese in esi­lio vi vede la rispo­sta alla scon­fitta del 1948–49. Milita in orga­niz­za­zioni come il Movi­mento dei nazio­na­li­sti arabi, creato da George Abbash, nel par­tito Baath o nei vari movi­menti nasseristi.Per que­sti gio­vani, l’unità araba è la strada per la libe­ra­zione della Palestina.

Dalla loro espe­rienza a Gaza, un gruppo di uomini trarrà invece la lezione oppo­sta. Essi hanno affron­tato diret­ta­mente Israele e misu­rato come il soste­gno arabo, anche da parte di Nas­ser, sia con­di­zio­nato – del resto, alcuni di loro cono­sce­ranno anche le pri­gioni egi­ziane. Per que­sti mili­tanti, la libe­ra­zione della Pale­stina può avve­nire solo a opera degli stessi pale­sti­nesi. Nel 1959 si radu­nano intorno a Yas­ser Ara­fat, egli stesso rifu­giato a Gaza nel 1948, per fon­dare Fatah, che è l’acronimo arabo, al con­tra­rio, di «Movi­mento nazio­nale pale­sti­nese». Fra i mili­tanti gazawi della prima ora, desti­nati a gio­care un ruolo cen­trale negli anni 1970–80, vi sono Salah Kha­laf (Abu Iyad), Kha­lil el Wasir (Abu Jihad), poi diven­tato il numero due di Fatah e assas­si­nato dagli israe­liani a Tunisi nel 1988, e Kamal Adwan, assas­si­nato da un com­mando israe­liano a Bei­rut nel 1973.

Il loro gior­nale Fali­sti­nouna («La nostra Pale­stina»), pub­bli­cato a Bei­rut negli anni fra il 1959 e il 1964, pro­clama: «Tutto quello che vi chie­diamo, è che voi [i regimi arabi] cir­con­diate la Pale­stina con una cin­tura difen­siva così da cir­co­scri­vere la guerra fra noi e i sio­ni­sti». E anche: «Tutto quello che vogliamo, è che voi [i regimi arabi] togliate le mani dalla Pale­stina». In quell’epoca, all’apice dell’influenza di Nas­ser, ci vuole un certo corag­gio per dichia­rare simili eresie.

Eppure, già alla metà degli anni 1960, con il fal­li­mento del ten­ta­tivo di unione fra Egitto e Siria (1958–1961), che rivela l’impotenza dei paesi arabi di fronte al corso degli eventi, il vento comin­cia a girare. La lotta di libe­ra­zione alge­rina, che si con­clude con la vit­to­ria nel 1962, funge da modello.

Nel gen­naio 1965, Fatah lan­cia le prime azioni mili­tari con­tro Israele e vede affluire mili­tanti da altre orga­niz­za­zioni, stan­che di aspet­tare un’unità araba sem­pre più impro­ba­bile. La scon­fitta del giu­gno 1967, con la guerra dei sei giorni, con­sente a Fatah di diven­tare una forza signi­fi­ca­tiva e di assu­mere, con l’avallo di Nas­ser, il con­trollo dell’Organizzazione per la libe­ra­zione della Pale­stina (Olp). Nel feb­braio 1969, Ara­fat diventa pre­si­dente del comi­tato ese­cu­tivo dell’Olp. I pale­sti­nesi sono tor­nati a essere un grande attore nella poli­tica regio­nale, e Gaza ha con­tri­buito note­vol­mente a que­sto rinnovamento.

Che cosa suc­cede al ter­ri­to­rio in que­sto periodo? Occu­pato da Israele, vede orga­niz­zarsi una resi­stenza mili­tare che rag­gruppa una quan­tità di orga­niz­za­zioni, salvo i Fra­telli musul­mani che si rifu­giano nell’azione sociale. Il primo attacco con­tro l’esercito di occu­pa­zione si veri­fica l’11 giu­gno 1967, ovvero all’indomani del ces­sate il fuoco fir­mato dall’Egitto e dai paesi arabi con Israele. Con alti e bassi, gli attac­chi con­ti­nuano fino al 1971. Per venirne a capo, occor­rerà la bru­ta­lità dei carri armati di Sha­ron e di innu­me­re­voli ese­cu­zioni extra­giu­di­ziali. Ma, se la resi­stenza mili­tare viene schiac­ciata, le ini­zia­tive poli­ti­che si mol­ti­pli­cano, e soprat­tutto i con­tatti con la Cisgior­da­nia, molto limi­tati prima del 1967. Le éli­tes si uni­scono all’Olp, che rico­no­scono come «unico rap­pre­sen­tante del popolo palestinese».

Gli unici a rifiu­tare sono i Fra­telli musul­mani. Essi si radi­cano pro­fon­da­mente gra­zie alle loro reti sociali e alla tol­le­ranza delle auto­rità di occu­pa­zione, che vedono in loro un con­trap­peso rispetto al nemico prin­ci­pale, l’Olp. Fon­data nel 1973 dallo sceicco Ahmed Yas­sin, la mujama’ isla­miya («cen­tro isla­mico») viene lega­liz­zata dall’occupante. Ma que­sto atten­di­smo – l’ora della resi­stenza non sarebbe ancora arri­vata – suscita pro­te­ste fra i Fra­telli; agli inizi degli anni 1980 una scis­sione porta alla nascita della Jihad islamica.

Nel dicem­bre 1987, è a Gaza che scop­pia la prima Inti­fada, la «rivolta delle pie­tre». Con due con­se­guenze impor­tanti. Da una parte, i Fra­telli impri­mono una svolta signi­fi­ca­tiva alla pro­pria stra­te­gia creando il Movi­mento della resi­stenza isla­mica (Hamas), che par­te­cipa all’Intifada ma rifiuta di for­mare un fronte unico con le altre orga­niz­za­zioni. D’altra parte, l’Olp uti­lizza la rivolta per raf­for­zare la pro­pria cre­di­bi­lità e nego­ziare gli accordi di Oslo, gui­dati da Ara­fat e dal primo mini­stro israe­liano Itz­hak Rabin il 13 set­tem­bre 1993 a Washing­ton. Il 1° luglio 1994, Ara­fat apre a Gaza la sede dell’Autorità nazio­nale pale­sti­nese.
Il seguito è noto: fal­li­mento degli accordi; svi­luppo della colo­niz­za­zione; seconda Inti­fada (a par­tire dal set­tem­bre 2000); vit­to­ria di Hamas alle prime ele­zioni demo­cra­ti­che tenu­tesi in Pale­stina nel 2006; rifiuto dei paesi occi­den­tali di rico­no­scere il nuovo governo, e alleanza fra una fazione di Fatah e Stati uniti per porvi fine; arrivo al potere di Hamas a Gaza nel 2007; blocco israe­liano impo­sto da allora a un milione e mezzo di abitanti.

La stri­scia di Gaza, mal­grado l’evacuazione dell’esercito israe­liano nel 2005 – senza alcun coor­di­na­mento con l’Autorità nazio­nale pale­sti­nese –, con­ti­nua a essere occu­pata. Tutti i suoi accessi dal mare, dalla terra e dal cielo con­ti­nuano a dipen­dere da Israele, che vieta ai pale­sti­nesi impor­tanti por­zioni del ter­ri­to­rio (il 30% delle terre agri­cole) e il mare al di là delle sei miglia nau­ti­che (ridotte a tre a par­tire dall’inizio dell’operazione mili­tare in luglio). Gli israe­liani con­ti­nuano a gestire lo stato civile. Il blocco che man­ten­gono dal 2007 sof­foca la popo­la­zione, mal­grado le con­danne una­nimi – uni­ca­mente ver­bali, è vero – da parte della «comu­nità inter­na­zio­nale», com­presi gli Stati uniti.

Dopo il suo ritiro, Israele ha con­dotto tre ope­ra­zioni di grande por­tata con­tro i ter­ri­tori: nel dicem­bre 2008-gennaio 2009; nel novem­bre 2012; infine nel luglio 2014. Fin­ché il blocco non sarà tolto, fin­ché i pale­sti­nesi non avranno uno Stato indi­pen­dente, ogni nuovo ces­sate il fuoco sarà solo una tre­gua. Il gene­rale de Gaulle lo aveva pre­detto, in una cele­bre con­fe­renza stampa tenuta il 27 novem­bre 1967 dopo la guerra arabo-israeliana: «Non ci può essere occu­pa­zione senza oppres­sione, repres­sione, espul­sioni»; le quali pro­vo­cano «la resi­stenza [che Israele]chiama ter­ro­ri­smo».
(Tra­du­zione di Mari­nella Cor­reg­gia)
© Le Monde diplomatique/ilmanifesto

—  Tommaso Di Francesco, 9.8.2014

Elemosina e complicità. In gioco c’è la questione, ormai, ineludibile dei diritti del popolo palestinese

Le fami­glie erano tor­nate nelle loro case senza tro­varle, i bam­bini gio­ca­vano vicino ai fune­rali dei loro coe­ta­nei, i pesca­tori get­ta­vano reti senza spe­ranza. 72 ore senza bom­bar­da­menti israe­liani, ma dal Cairo non pote­vano arri­vare né l’estensione della tre­gua né la pace. Per­ché i pale­sti­nesi sono soli. Per i governi euro­pei, che i ter­ri­tori pale­sti­nesi restino occu­pati è un fatto mar­gi­nale. Il governo ita­liano dell’ex scout Renzi che ha taciuto su tutti mas­sa­cri di que­sti giorni, è impe­gnato in uno sforzo di diplo­ma­zia par­roc­chiale: invia alla gente di Gaza, pen­sate, 30 ton­nel­late di aiuti. Gli aiuti ser­vono e quel che resta della sini­stra deve rac­co­glierli, a par­tire dai medi­ci­nali e soste­nendo le orga­niz­za­zioni uma­ni­ta­rie pale­sti­nesi. Ma per favore basta ele­mo­sina e com­pli­cità. Per­ché l’Italia tace sul Trat­tato mili­tare in vigore con Israele e non fa come la Spa­gna che, sim­bo­li­ca­mente, ha fer­mato per un mese l’import-export di armi con Israele.

Si è pre­fe­rito dimen­ti­care che la tre­gua annun­ciata di fatto era uni­la­te­rale e che Israele andava al Cairo solo per det­tare con­di­zioni: zona smi­li­ta­riz­zata, e di più, tutta Gaza smi­li­ta­riz­zata, fine dei tun­nel e dei razzi, verso l’esclusione di Hamas dal governo della Stri­scia, come dichiara il mini­stro israe­liano Tzipi Livni. I 29 giorni di «Mar­gine pro­tet­tivo», con la strage di quasi due­mila pale­sti­nesi uccisi, in mag­gio­ranza civili e tanti bam­bini, di otto­mila feriti tra cui molti gra­vis­simi e senza cure ade­guate, di cen­ti­naia di migliaia di senza casa con l’odio che è stato semi­nato, non hanno certo aperto nuovi spi­ra­gli alla crisi.

Che non è il «con­flitto israelo-palestinese» come scri­vono i gior­na­li­sti embed­ded — ma nem­meno il gior­na­li­smo che abbiamo cono­sciuto esi­ste più? -, come se fos­sero due parti eguali, due stati legit­timi e due eser­citi di eguale forza. No. In gioco c’è la que­stione, ormai, ine­lu­di­bile dei diritti del popolo palestinese.

A meno che non si voglia appro­fit­tare della per­ver­sione colo­niale dei tanti governi israe­liani, non solo di Neta­nyahu: una guerra breve ogni due-tre anni con un deserto chia­mato pace, quel tanto da met­tere la que­stione dei diritti del popolo pale­sti­nese in sor­dina, sullo sfondo, gra­zie alle distru­zioni e alle fal­si­fi­ca­zioni che allon­ta­nano la con­sa­pe­vo­lezza di un misfatto: il blocco di Gaza. Che deve essere tolto, e que­sto obiet­tivo non dovrebbe essere solo di Hamas ma del mondo intero. Che dovrebbe ricor­dare che il blocco è stato impo­sto da Israele — invece di rispon­dere alla neces­sità di un cor­ri­doio di col­le­ga­mento tra Gaza e Cisgior­da­nia occu­pata in vista della nascita dello Stato di Pale­stina — per argi­nare l’emergenza rap­pre­sen­tata da Hamas, che nel 2006 vinse le ele­zioni pale­sti­nesi non solo a Gaza ma in tutta la Cisgior­da­nia, affer­man­dosi in alter­na­tiva alla nuova lea­der­ship di Al Fatah emersa dopo l’umiliazione di Ara­fat chiuso dai carri armati israe­liani a Ramal­lah nel 2002 e la sua ucci­sione nel 2004. Una lea­der­ship giu­di­cata dagli stessi pale­sti­nesi cor­rotta e con­ta­mi­nata dal legame con le intel­li­gence occi­den­tali, quella Usa in pri­mis, impe­gnate a con­trol­lare e ad infil­trare ogni scelta auto­noma dell’Autorità nazio­nale pale­sti­nese e a repri­mere ogni dis­senso e radi­ca­lità. Qual­cuno ricorda le moda­lità dell’arresto dell’unico vero lea­der del popolo pale­sti­nese, Mar­wan Bar­ghouti? La rot­tura tra Hamas e Fatah fu anche vio­lenta a Gaza City e vice­versa a Ramal­lah. Ma dopo sei anni, e soprat­tutto di fronte all’inasprirsi dell’occupazione mili­tare israe­liana, delle colo­nie, del Muro che sarà rad­dop­piato, della rapina delle acque e della distru­zione dell’agricoltura pale­sti­nese, della ridu­zione della West Bank in una grande pri­gione di cemento, ecco che è tor­nata l’unità tra i pale­sti­nesi di Gaza e di Cisgior­da­nia. Ecco il vero «razzo Qas­sam» che Neta­nyahu non può sopportare.

Certo Hamas ha le sue respon­sa­bi­lità. I razzi che lan­cia non sono nem­meno la guerra asim­me­trica di una guer­ri­glia armata: sono un niente con­tro­pro­du­cente, un regalo a Neta­nyahu. E van­tare «vit­to­ria» come fanno le Bri­gate Ezze­din al Qas­san sem­bra un tri­ste deli­rio d’impotenza. Ma tra le mace­rie emer­gono alcune novità e una verità. In que­sti giorni — men­tre, nono­stante le distru­zioni della guerra, sem­bra cre­scere anche in Cisgior­da­nia il con­senso per Hamas e in calo quello da Al Fatah — l’Anp chiede alla Corte dell’Aja le moda­lità per ade­rire al Tri­bu­nale penale inter­na­zio­nale dell’Onu e incri­mi­nare così il governo israe­liano. Se è inge­nuo pen­sare che l’iter andrà dav­vero avanti, non va dimen­ti­cato che la richie­sta di ade­rire alle Agen­zie dell’Onu resta l’ultima occa­sione per la cre­di­bi­lità di Abu Mazen e l’ultima vera pos­si­bi­lità pale­sti­nese; men­tre cre­sce la soli­da­rietà inter-palestinese con un pezzo del pro­prio popolo che vive nell’altra pri­gione di Gaza, dove se resta il blocco – e i vali­chi con l’Egitto chiusi dal gol­pi­sta Sisi -, sarà ine­vi­ta­bile e giu­sto sca­vare altri tun­nel per vivere e far entrare beni di prima neces­sità. E la verità, amara, è che se Hamas smet­tesse subito di lan­ciare i razzi, la con­di­zione pale­sti­nese reste­rebbe sem­pre la stessa: un popolo esi­liato in tutto il Medio Oriente, abi­tante dei campi pro­fu­ghi nella sua stessa terra, chiuso da Muri di recin­zione e posti di blocco, invaso da una ragna­tela di colo­nie d’occupazione e inse­dia­menti che hanno can­cel­lato la con­ti­nuità ter­ri­to­riale dello Stato di Pale­stina, che rubano occa­sioni di vita e lavoro, diviso in due ter­ri­tori, uno alla mercé della guerra breve con­ti­nua, l’altro sem­pli­ce­mente colo­niz­zato e zit­tito. E senza alcuna pro­spet­tiva di inte­gra­zione con il nemico occu­pante, se non lo sta­tus perenne di occu­pato.
<CW-5>Jimmy Car­ter, l’ex pre­si­dente ame­ri­cano che ora chiede all’Occidente di rico­no­scere Hamas, ha tito­lato «Apar­theid» il suo bel libro sulla con­di­zione pale­sti­nese. Obama pur­troppo, a quanto pare, non l’ha nem­meno sfogliato.

 

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—  Redazione, 8.8.2014

Amira Hass, sto­rica cor­ri­spon­dente di Haa­retz dai Ter­ri­tori pale­sti­nesi occu­pati, spiega ai let­tori la legit­ti­mità delle richie­ste pre­sen­tate dalla dele­ga­zione pale­sti­nese ai nego­ziati del Cairo, ter­mi­nati ieri senza alcun risul­tato. «Aprite il valico di Erez, subito», esorta la gior­na­li­sta. «È una richie­sta urgente per la dele­ga­zione pale­sti­nese al Cairo: non lasciate che gli israe­liani ingan­nino voi e il resto del mondo con accordi per la gestione del valico di Rafah, per il colore delle uni­formi indos­sate dai sol­dati di Mah­moud Abbas, quante unità, e quali deb­bano essere le moda­lità del saluto».

«A que­sto punto – pro­se­gue — non insi­stete sull’aeroporto o il porto a Gaza. Foca­liz­za­tevi sul ripri­sti­nare il fon­da­men­tale, natu­rale, logico col­le­ga­mento tra la Stri­scia di Gaza e la Cisgior­da­nia. Insi­stete che venga imme­dia­ta­mente riat­ti­vata la libera cir­co­la­zione dei pale­sti­nesi tra di loro (non solo pochi com­mer­cianti e alti fun­zio­nari). Que­sto dovrebbe essere il vostro prin­ci­pale obiet­tivo».
«La classe diri­gente israe­liana – ha spie­gato Hass — i com­men­ta­tori e la mag­gior parte della loro opi­nione pub­blica con­si­de­rano la richie­sta di col­le­gare la Stri­scia e la Cisgior­da­nia come “ridi­cola”. Que­sta parola incarna l’arroganza aggres­siva di Israele. L’Egitto ha giu­sta­mente paura dell’intenzione di Israele di riaf­fi­dar­gli la Stri­scia, i suoi abi­tanti e i suoi pro­blemi. Appro­fit­tate di que­sta paura. Que­sto è quello che fin dal 1990 Israele ha cer­cato di otte­nere — creare éncla­ves pale­sti­nesi, iso­larle e tra­sfor­mare la Stri­scia in un’entità poli­tica separata».

Valico di Erez / Wikipedia                   http://www.ciai-s.net

La gior­na­li­sta israe­liana sot­to­li­nea anche il ruolo nega­tivo svolto dai diri­genti dell’Autorità nazio­nale pale­sti­nese che, a suo dire … «hanno tra­scu­rato l’elementare richie­sta che venisse rispet­tato il diritto alla libera cir­co­la­zione. I diri­genti dell’Anp si sono accon­ten­tati del pri­vi­le­gio di poter pas­sare per il valico di Erez… (Eppure) La sepa­ra­zione tra Stri­scia e Cisgior­da­nia può essere revocata».

Hass sot­to­li­nea l’abilità nel com­bat­ti­mento mostrata dall’ala mili­tare di Hamas. «C’è qual­cuno che cre­deva che un’organizzazione pale­sti­nese avrebbe potuto pia­ni­fi­care una cam­pa­gna mili­tare che avrebbe man­dato in con­fu­sione in que­sto modo il numero 1 degli espor­ta­tori di droni? Chi imma­gi­nava che un’organizzazione pale­sti­nese avrebbe potuto impa­rare dai pro­pri errori nel 2008–2009 e sfi­dare la potenza mili­tare di Israele?»… Tut­ta­via, aggiunge la gior­na­li­sta israe­liana rivol­gen­dosi ad Hamas, «que­sta sor­pren­dente capa­cità mili­tare sarà inu­tile se non viene tra­sfor­mata in un cam­bia­mento del vostro modo di pen­sare sul piano civile. Avete risco­perto la Cisgior­da­nia dopo che i vostri canali con l’Egitto si sono inter­rotti. Per cui siete pas­sati al governo di ricon­ci­lia­zione. L’uccisione indi­scri­mi­nata dei resi­denti gazawi da parte di Israele ha fatto rina­scere in loro una presa di coscienza sull’Olp e sui pale­sti­nesi della Cisgiordania».

Secondo Hass «è il momento per chie­dere: aprite il valico di Erez. Israele, al solito, gri­derà “Sos sicu­rezza”. Lascia­telo gri­dare. Non ci potrà essere sicu­rezza per Israele fin­ché non rico­no­sce­ranno ai pale­sti­nesi il diritto alla vita, e di vivere con dignità».
Infine rivol­gen­dosi ancora ai dele­gati pale­sti­nesi, la gior­na­li­sta li esorta a chie­dere «che il mondo paghi il conto per le sue dichia­ra­zioni. Tirate fuori tutte le rela­zioni della Banca Mon­diale, del Fondo Mone­ta­rio Inter­na­zio­nale e dell’EU. Non vi è rico­stru­zione dell’economia pale­sti­nese, di Gaza, non c’è nes­suna vita, fin­ché la gente e le merci non potranno cir­co­lare libe­ra­mente. Que­sto com­prende la pos­si­bi­lità di espor­ta­zioni da Gaza, stu­diare nelle uni­ver­sità, pre­gare a al-Aqsa e man­giare l’hummus nella Città Vec­chia. La pos­si­bi­lità di viag­giare da Nablus alla spiag­gia di Beit Lahia».

«La Stri­scia – con­clude — smet­terà di essere un enorme campo di con­cen­tra­mento sola­mente quando ci vorrà un’ora di auto­bus tra Gaza e la Cisgior­da­nia, al costo di 32 she­kels andata e ritorno, con uno sconto per i bam­bini e per le fami­glie numerose».

(tra­du­zione di Carlo Tagliacozzo)

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Striscia di Gaza. Israele e Hamas si accusano a vicenda di aver fatto fallire la tregua. Tel Aviv chiede la restituzione immediata del militare catturato e accusa il movimento islamico di aver eseguito dopo le ore 8, quindi in piena tregua, un piano organizzato da tempo. Gli islamisti replicano che tutto è accaduto prima della tregua e durante combattimenti per respingere un’avanzata di mezzi corazzati israeliani

Israele e Hamas con­ti­nuano a scam­biarsi l’accusa di aver pro­vo­cato ieri il fal­li­mento della tre­gua uma­ni­ta­ria di 72 ore che avrebbe dovuto aprire la strada a un pos­si­bile accordo di ces­sate il fuoco per­ma­nente. E ad aggiun­gere ben­zina sul fuoco è stato l’attacco con­tro un’unità israe­liana che si è con­clusa con l’uccisione di due sol­dati e la cat­tura di un tenente della Bri­gata Ghi­vati, Hadar Gol­din, 23 anni. Il Segre­ta­rio di stato John Kerry ha già deciso per Israele «Gli Stati Uniti con­dan­nano la ver­go­gnosa vio­la­zione da parte pale­sti­nese del ces­sate il fuoco», ha detto unen­dosi a una con­danna ana­loga giunta in pre­ce­denza anche dalla Casa Bianca. «Hamas deve libe­rare imme­dia­ta­mente il sol­dato israe­liano rapito», ha aggiunto. Poco dopo il segre­ta­rio gene­rale dell’Onu, Ban Ki-moon, ha denun­ciato anche la vio­la­zione del ces­sate il fuoco uma­ni­ta­rio attri­buen­dola ad Hamas. Con­danne, appelli alla libe­ra­zione del sol­dato ed espres­sioni di soli­da­rietà a Israele sono giunte per tutto il giorno nell’ufficio del primo mini­stro, raf­for­zando la deter­mi­na­zione di Neta­nyahu di avviare un’offensiva mili­tare a Gaza per­sino più ampia di quella attuata a luglio. «Faremo tutto ciò che è neces­sa­rio per difen­dere gli israe­liani», ha avver­tito peren­to­rio Neta­nyahu prima della riu­nione del governo volta a deci­dere la rispo­sta, pre­ve­di­bil­mente dura, all’uccisione dei due sol­dati e alla cat­tura dell’ufficiale.

Già ieri mat­tina le can­no­nate dei mezzi coraz­zati hanno fatto 62 morti e 250 feriti a Rafah, dove, secondo testi­moni, hanno anche dan­neg­giato l’ospedale al Najar del quale ieri sera l’esercito israe­liano ha chie­sto l’evacuazione. E’ stata col­pita povera gente, per­sone che erano in strada per­chè cre­de­vano che ci fosse la tre­gua e che invece sono state uccise. Per Israele, che ritrova in que­sta occa­sione il pieno soste­gno di Washing­ton, Hamas ha com­piuto il rapi­mento del sol­dato con un piano ben orga­niz­zato e nel pieno della tre­gua uma­ni­ta­ria scat­tata alle 8. La ver­sione del movi­mento isla­mico è molto diversa. Gli isla­mi­sti sosten­gono che tutto è avve­nuto prima delle 8 e aggiun­gono che il mili­tare è stato fatto pri­gio­niero durante com­bat­ti­menti inne­scati da un’avanzata di carri armati israe­liani a Rafah. Oggi la dele­ga­zione pale­sti­nese, con rap­pre­sen­tanti di Hamas e gui­data dal pre­si­dente Mah­mud Abbas, andrà al Cairo per nego­ziare il ces­sate il fuoco con la media­zione egi­ziana. Ma dif­fi­cil­mente sarà rag­giunta in serata da quella israe­liana. Il governo Neta­nyahu, dice­vano ieri sera le indi­scre­zioni, dovrebbe lan­ciare un ulti­ma­tum ad Hamas: libe­rate subito il sol­dato o per Gaza sarà l’inferno.

Ieri dopo le 8 le strade di Gaza city e del resto della Stri­scia si erano imme­dia­ta­mente popo­late, nono­stante il venerdì isla­mico che, di solito, spinge la popo­la­zione a comin­ciare tutte le atti­vità solo dopo la pre­ghiera di mez­zo­giorno. Dal por­tic­ciolo di Gaza le bar­chette dei pesca­tori una dopo l’altra sono uscite in mare per get­tare final­mente le reti. Poco dopo i pesca­tori più veloci hanno pron­ta­mente alle­stito i ban­chetti per la ven­dita del pesce fre­sco. Il traf­fico auto­mo­bi­li­stico si è fatto subito soste­nuto, soprat­tutto nei quar­tieri popo­lari, e per la prima volta un buon numero di com­mer­cianti ha ria­perto i negozi tenuti chiusi dall’8 luglio. La gente cre­deva alle pos­si­bi­lità di que­sta tre­gua di 72 ore, a dif­fe­renza delle “fine­stre uma­ni­ta­rie” dei giorni scorsi durante le quali non sono man­cate le stragi, come l’altro giorno a Shu­jayea dove un mis­sile israe­liano ha col­pito la zona del mer­cato ucci­dendo una ven­tina di civili. Ma non sono stati solo momenti intensi, sep­pur brevi, di relax dopo oltre tre set­ti­mane di raid aerei e bom­bar­da­menti israe­liani. Per molti sfol­lati la tre­gua ha signi­fi­cato la pos­si­bi­lità di lasciare per qual­che ora le scuole dell’Unrwa e gli altri rifugi per recarsi alle case, o a ciò che rimane delle loro abi­ta­zioni, per cer­care di recu­pe­rare qual­cosa di utile, rispar­miato dalla vio­lenza delle can­no­nate e dal crollo di muri e soffitti.

Un fiume umano, non appena sono scoc­cate le 8, si è messo in movi­mento verso Shu­jayea, Beit Hanun, Beit Lahiya e Jaba­liya le aree orien­tali di Gaza mag­gior­mente col­pite dai tiri dell’artiglieria o dai mis­sili sgan­ciati da F-16 e droni israe­liani. Un mare di uomini, donne, bam­bini con in mano buste di pla­stica e borse. I più for­tu­nati sono arri­vati a bordo di car­retti tirati dall’asino e di vec­chi fur­goni. Al sol­lievo di chi ha ritro­vato in piedi la sua abi­ta­zione o dan­neg­giata solo par­zial­mente, si è con­trap­po­sto il silen­zio tri­ste di chi ha per­duto tutto e non ha potuto recu­pe­rare nep­pure un oggetto, un ricordo di una vita tra­scorsa tra le pareti dome­sti­che. «La nostra casa non c’è più, dove andremo ora, come vivremo, non abbiamo più nulla», ripe­teva una gio­vane avvolta nel velo nero, seduta sulle mace­rie della casa. Parole che ripe­te­vano tanti ieri, non solo a Shu­jayea. L’emergenza dei sfol­lati è immensa. Le agen­zie uma­ni­ta­rie stanno facendo il pos­si­bile, assieme ad ong locali ed inter­na­zio­nali per por­tare mate­rassi, cibo, acqua e medi­cine a chi è stato costretto ad abban­do­nare le abi­ta­zioni sotto la spinta dell’avanzata dei mezzi coraz­zati e l’urto delle can­no­nate israeliane.

E già si annun­cia lo slit­ta­mento dell’inizio dell’anno sco­la­stico pre­vi­sto a fine ago­sto. Tutti a Gaza sono con­vinti che l’attacco israe­liano non avrà ter­mine pre­sto e che molte scuole, non solo quelle dell’Unrwa, rimar­ranno occu­pate dagli sfol­lati per mesi. E ora si rischiano anche le malat­tie infet­tive. La ong bri­tan­nica Oxfam lan­cia l’allarme «Men­tre cre­sce il numero degli sfol­lati intrap­po­lati a Gaza (arri­vati a 450 mila) e con­ti­nua l’uccisione di minori (253 le vit­time accer­tate tra i bam­bini) – scrive la Ong inter­na­zio­nale — esplode il rischio di epi­de­mie tra la popo­la­zione a causa dell’assenza di ser­vizi igie­nici e della man­canza o con­ta­mi­na­zione da liquami dell’acqua…sono già 30 i casi di menin­gite tra i minori, men­tre stanno aumen­tando anche i rischi di malat­tie della pelle e di gastroen­te­rite tra la popo­la­zione». Oxfam è al lavoro a Gaza per aiu­tare 97.000 per­sone. Dall’inizio del con­flitto ha for­nito acqua pota­bile a più di 74.000 pale­sti­nesi e distri­buito buoni d’acquisto per beni di prima neces­sità ad altri 15.891. E’ al lavoro sono anche il “Cen­tro Ita­liano– Vit­to­rio Arri­goni”, le ong e le asso­cia­zioni ita­liane e varie orga­niz­za­zioni pale­sti­nesi, che hanno rac­colto fondi in Ita­lia per com­prare medi­cine per gli ospe­dali di Gaza e altri fondi nei Ter­ri­tori occu­pati per acqui­stare mate­rassi, latte per i bam­bini, tani­che dell’acqua e kit per la cucina, bom­bole del gas, abiti. Beni che sono già andati a mille fami­glie. E pre­sto gra­zie a nuovi fondi saranno aiu­tate altre mille famiglie.

Si è pianto non solo per le case per­dute ma anche per mariti, figli, mogli, sorelle, geni­tori morti nei raid e nei can­no­neg­gia­menti israe­liani. Dalle mace­rie di Khu­saa, tra Khan Yunis e Rafah, a bre­vis­sima distanza dalle linee di demar­ca­zione tra Gaza e Israele, con­ti­nuano ad emer­gere i corpi degli uccisi nei giorni scorsi. Il vil­lag­gio resta area mili­tare chiusa ma ieri i reparti coraz­zati israe­liani, sia pure per pochi minuti, hanno per­messo ai resi­denti di avvi­ci­narsi lungo la strada prin­ci­pale. Khu­saa, hanno sco­perto i suoi abi­tanti, ormai è una lunga stri­scia di edi­fici distrutti, moschee sven­trate, pila­stri rima­sti mira­co­lo­sa­mente in piedi. A mani nude, senza masche­rine sul volto per pro­teg­gersi dalla puzza insop­por­ta­bile dei corpi in decom­po­si­zione, molti hanno potuto rico­no­scere i loro cari solo dagli indu­menti o dall’orologio. Hanno sco­perto in stanze semi­di­strutte, sotto un pila­stro caduto, tra pie­tre e pol­vere, i cava­deri di amici che man­cano all’appello da giorni. Un gio­vane tra le lacrime ha chia­mato i gior­na­li­sti ad osser­vare sei corpi di car­bo­niz­zati in una casa distrutta solo in parte. Le stesse scene si sono viste a Aba­san, Bani Suheila, Khan Yunis, In que­sta zona sono morte circa 250 per­sone in attac­chi aerei e tiri dell’artiglieria. Quando saranno recu­pe­rati tutti i corpi rima­sti sotto le mace­rie, il bilan­cio di vit­time pale­sti­nesi dell’offensiva israe­liana si allun­gherà in modo dram­ma­tico, arri­vando a numeri da vera e pro­pria car­ne­fi­cina, ben oltre i 1.500 già rag­giunti ieri.

—  Michele Giorgio, GAZA, 1.8.2014
ilmanifesto.info
  1. Foto: In Palestina non c'è solo Hamas, ci sono partiti diversi come in Israele e come in qualsiasi altra parte del mondo. In Palestina ci sono anche forze laiche e anticapitaliste, sicuramente quelle a cui noi ci sentiamo più vicini. Abbiamo chiesto ad Ares, un compagno palestinese, un contributo per la pagina che pubblichiamo con grande piacere. </p>
<p>«Il più grande colpevole di quello che sta succedendo a Gaza è semplicemente il capitalismo. E tutti i suoi figli, sionismo, colonialismo, nazionalismo, li trovi sempre lì a distribuire disuguaglianza, morte, distruzione e profitti per pochi. </p>
<p>Perché non sono gli ebrei che bombardano Gaza, ma idioti che si nascondono dietro un'idea di nazionalismo religioso, che si chiama sionismo ed è nato 100 anni fa da uomini d'affari che cercavano una terra dove fare uno Stato. Ma gli ebrei già vivevano in Palestina, convivevano con cristiani e musulmani. Ebrei, musulmani e cristiani hanno sempre convissuto in tutto in tutto il mondo arabo, dal Marocco allo Yemen.</p>
<p>Ed è sempre la logica del profitto e del nazionalismo che ha portato a credere alla possibilità di due Stati, quella logica che sta alla base degli accordi di pace di Oslo 1994, che di pace non hanno proprio niente.</p>
<p>Con gli accordi di Oslo non ha vinto la pace, ma ha vinto il capitalismo. Gli accordi hanno diviso quello che non c'era più da dividere in Palestina. Così adesso esistono tre zone: A, B, C. La prima sotto controllo dell’OLP (in realtà, nell'ultimo mese, l’IDF ha scorrazzato ovunque volesse in tutti i villaggi palestinesi), una zona B sotto controllo congiunto e la zona C completamente israeliana. Qui Israele continua a costruire le sue colonie in casa d'altri. Questi accordi garantiscono anche che il controllo dell'ingresso in Palestina sia fatto da soldati con la stella di David, la moneta è lo sheqel di Tel Aviv, la corrente elettrica la devi comprare da Tel Aviv, gli stessi fondi dell'OLP possono essere manovrati da Israele.</p>
<p>Questa macchina ha creato il colonialismo dei Territori, a vantaggio dei dirigenti dell’OLP che, come avviene in ogni regime coloniale e anche nella povera e arretrata Palestina, sono diventati classe medio-borghese. Quella dei privilegiati, che se ne sta a Ramallah lontano dai conflitti. Quella che per tutelare i suoi privilegi ha svenduto tutto e non vede, o forse non vuole vedere, cosa succede a pochi chilometri. Così ci si è trovati ad avere uno Stato di Palestina dove il governo non combatte il suo peggior nemico, il sionismo, ma l'appoggia; dove non arriva la repressione dell'IDF arrivano i soldatini di Abbas, la resistenza è stata quasi completamente smantellata, tutti sacrifici in cambio di  nulla. Perché mentre si reprime in Cisgiordania, il sionismo continua a costruire, a rubare terre, umiliare, uccidere e arrestare.</p>
<p>La divisone palestinese è dovuta a ragioni politiche che si intrecciano con quelle economiche. In una struttura sociale dove la disoccupazione è alta e il più grande datore di lavoro è lo stesso Stato con ministeri, scuole, burocrazia... se sei di un partito lavori e mangi, se non lo sei non mangi (vedi l’adesione allo sciopero generale, quando vinse Hamas nel 2006: la Palestina si blocco perché Israele non pagava gli stipendi e tutti i funzionari pubblici sono di Fatah).</p>
<p>Quello che sta succedendo a Gaza e il risultato di non voler chinar la testa, i gazawi sono per la maggior parte profughi, di ogni guerra che ha devastato la Palestina. Qua non ci sono zone A, B e C, è tutto un grande ghetto: 36 km quadrati, quanto un comune di 200000 abitanti in Italia, solo che ci vivono quasi 2 milioni di persone. A Gaza non si sta punendo Hamas perché lancia i razzi: parlare di Hamas, vuol dire che ci si è fatti lobotomizzare una parte del cervello dai giornali. Hamas non è solo un partito, è anche una parte della società palestinese. </p>
<p>Punire Hamas a Gaza è una bugia, perché tutte le fazioni politiche hanno il loro braccio armato e tutte combattono per la resistenza, che sia Hamas, Jihad Islamica, Al Fath, il Fronte Popolare, tutti combattono, tutti lanciano i razzi, tutti resistono. Questa non è guerra: è resistenza. L'autodeterminazione di un popolo che non vuole essere schiavo di un altro, se ci sta simpatico il 25 aprile in Italia, dovremmo sostenere anche questa lotta. </p>
<p>I motivi veri di questa nuova macelleria, possono essere tantissimi: dallo sfruttamento delle risorse idriche e minerarie del territorio, alla pulizia etnica per ridurre in maniera drastica un popolazione che cresce al ritmo del 4% annuo, una rioccupazione del territorio che Israele ha lasciato nel 2005. </p>
<p>Quello che accade oggi a Gaza non è diverso da piombo fuso, solo che ci sono più internazionali a testimoniare che cadono le bombe, mentre con piombo fuso c'era solo Vik, Vittorio Arrigoni, a raccontarci con gli occhi pieni di lacrime quello che succedeva. </p>
<p>Il vero problema della Palestina e che a nessuno importa dei palestinesi, noi comunque restiamo umani, alzando le dita in segno di vittoria perché resistiamo, che sia in Palestina, in Libano, in Giordania, in qualsiasi parte del mondo dove sono esuli, sappiamo qual è la parte della barricata dove dobbiamo stare.»In Palestina non c’è solo Hamas, ci sono partiti diversi come in Israele e come in qualsiasi altra parte del mondo. In Palestina ci sono anche forze laiche e anticapitaliste, sicuramente quelle a cui noi ci sentiamo più vicini. Abbiamo chiesto ad Ares, un compagno palestinese, un contributo per la pagina che pubblichiamo con grande piacere.

    «Il più grande colpevole di quello che sta succedendo a Gaza è semplicemente il capitalismo. E tutti i suoi figli, sionismo, colonialismo, nazionalismo, li trovi sempre lì a distribuire disuguaglianza, morte, distruzione e profitti per pochi.

    Perché non sono gli ebrei che bombardano Gaza, ma idioti che si nascondono dietro un’idea di nazionalismo religioso, che si chiama sionismo ed è nato 100 anni fa da uomini d’affari che cercavano una terra dove fare uno Stato. Ma gli ebrei già vivevano in Palestina, convivevano con cristiani e musulmani. Ebrei, musulmani e cristiani hanno sempre convissuto in tutto in tutto il mondo arabo, dal Marocco allo Yemen.

    Ed è sempre la logica del profitto e del nazionalismo che ha portato a credere alla possibilità di due Stati, quella logica che sta alla base degli accordi di pace di Oslo 1994, che di pace non hanno proprio niente.

    Con gli accordi di Oslo non ha vinto la pace, ma ha vinto il capitalismo. Gli accordi hanno diviso quello che non c’era più da dividere in Palestina. Così adesso esistono tre zone: A, B, C. La prima sotto controllo dell’OLP (in realtà, nell’ultimo mese, l’IDF ha scorrazzato ovunque volesse in tutti i villaggi palestinesi), una zona B sotto controllo congiunto e la zona C completamente israeliana. Qui Israele continua a costruire le sue colonie in casa d’altri. Questi accordi garantiscono anche che il controllo dell’ingresso in Palestina sia fatto da soldati con la stella di David, la moneta è lo sheqel di Tel Aviv, la corrente elettrica la devi comprare da Tel Aviv, gli stessi fondi dell’OLP possono essere manovrati da Israele.

    Questa macchina ha creato il colonialismo dei Territori, a vantaggio dei dirigenti dell’OLP che, come avviene in ogni regime coloniale e anche nella povera e arretrata Palestina, sono diventati classe medio-borghese. Quella dei privilegiati, che se ne sta a Ramallah lontano dai conflitti. Quella che per tutelare i suoi privilegi ha svenduto tutto e non vede, o forse non vuole vedere, cosa succede a pochi chilometri. Così ci si è trovati ad avere uno Stato di Palestina dove il governo non combatte il suo peggior nemico, il sionismo, ma l’appoggia; dove non arriva la repressione dell’IDF arrivano i soldatini di Abbas, la resistenza è stata quasi completamente smantellata, tutti sacrifici in cambio di nulla. Perché mentre si reprime in Cisgiordania, il sionismo continua a costruire, a rubare terre, umiliare, uccidere e arrestare.

    La divisone palestinese è dovuta a ragioni politiche che si intrecciano con quelle economiche. In una struttura sociale dove la disoccupazione è alta e il più grande datore di lavoro è lo stesso Stato con ministeri, scuole, burocrazia… se sei di un partito lavori e mangi, se non lo sei non mangi (vedi l’adesione allo sciopero generale, quando vinse Hamas nel 2006: la Palestina si blocco perché Israele non pagava gli stipendi e tutti i funzionari pubblici sono di Fatah).

    Quello che sta succedendo a Gaza e il risultato di non voler chinar la testa, i gazawi sono per la maggior parte profughi, di ogni guerra che ha devastato la Palestina. Qua non ci sono zone A, B e C, è tutto un grande ghetto: 36 km quadrati, quanto un comune di 200000 abitanti in Italia, solo che ci vivono quasi 2 milioni di persone. A Gaza non si sta punendo Hamas perché lancia i razzi: parlare di Hamas, vuol dire che ci si è fatti lobotomizzare una parte del cervello dai giornali. Hamas non è solo un partito, è anche una parte della società palestinese.

    Punire Hamas a Gaza è una bugia, perché tutte le fazioni politiche hanno il loro braccio armato e tutte combattono per la resistenza, che sia Hamas, Jihad Islamica, Al Fath, il Fronte Popolare, tutti combattono, tutti lanciano i razzi, tutti resistono. Questa non è guerra: è resistenza. L’autodeterminazione di un popolo che non vuole essere schiavo di un altro, se ci sta simpatico il 25 aprile in Italia, dovremmo sostenere anche questa lotta.

    I motivi veri di questa nuova macelleria, possono essere tantissimi: dallo sfruttamento delle risorse idriche e minerarie del territorio, alla pulizia etnica per ridurre in maniera drastica un popolazione che cresce al ritmo del 4% annuo, una rioccupazione del territorio che Israele ha lasciato nel 2005.

    Quello che accade oggi a Gaza non è diverso da piombo fuso, solo che ci sono più internazionali a testimoniare che cadono le bombe, mentre con piombo fuso c’era solo Vik, Vittorio Arrigoni, a raccontarci con gli occhi pieni di lacrime quello che succedeva.

    Il vero problema della Palestina e che a nessuno importa dei palestinesi, noi comunque restiamo umani, alzando le dita in segno di vittoria perché resistiamo, che sia in Palestina, in Libano, in Giordania, in qualsiasi parte del mondo dove sono esuli, sappiamo qual è la parte della barricata dove dobbiamo stare.»

     

Militari israeliani violentano bambini palestinesi – ControLaCrisi.org.

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