L’accusa di Amnesty a Israele: “Crimini di guerra a Gaza”. Tel Aviv: “Falsificano la realtà”
La replica dello Stato ebraico: “Dossier lacunoso, sono ossessionati da noi”. Per l’organizzazione umanitaria tra il primo e il 4 agosto scorso a Rafah avvenne una “carneficina” ingiustificata con 135 palestinesi uccisi: “Forse crimini contro l’umanità”. Netanyahu approva nuovi insediamenti israeliani in Cisgiordania
Oggi arrivano le accuse ancora più dure da parte di Amnesty International: secondo l’organizzazione umanitaria le forze armate israeliane si sarebbero macchiate di crimini di guerra la scorsa estate nel corso di attacchi aerei e terrestri lanciati in zone abitate a Rafah (Gaza).
Dura la reazione dello Stato ebraico che respinge con forza le accuse. “Amnesty International falsifica la realtà nel suo rapporto sui combattimenti di un anno fa a Gaza” afferma il ministero degli Esteri israeliano, secondo cui il rapporto è lacunoso “nella metodologia, nella ricostruzione dei fatti, nelle analisi e nelle conclusioni”. Amnesty, sostiene il ministero, “ancora una volta dimostra la propria ossessione verso Israele”.
Striscia di Gaza, la storia del conflitto in un minuto
L’accusa verso Israele è contenuta in un rapporto presentato oggi a Gerusalemme nel quale Amnesty non esclude che le azioni dell’esercito israeliano possano essere bollate anche come “crimini contro l’umanità”. Nel dettaglio sono stati analizzati i fatti tra l’1 e il 4 agosto quando a Rafah furono uccisi 135 palestinesi fra cui 75 minorenni dopo che un ufficiale israeliano era caduto in agguato di Hamas, una “carneficina”. Secondo Amnesty “Israele agì con una terribile indifferenza verso le vite umane civili, e lanciò attacchi sproporzionati ed indiscriminati”.
I ricercatori di Amnesty, che non sono potuti entrare nella Striscia perchè impediti da Israele, si sono avvalsi di tecniche investigative e di analisi sofisticate, messe a punto un team di ricercatori (Forensic Architecture) nell’Università di Londra. Si sono basati fra l’altro sull’analisi approfondita di fotografie, su filmati video e su testimonianze oculari.
Per l’organizzazione umanitaria le autorità israeliane non hanno condotto “indagini credibili, indipendenti ed imparziali”. Amnesty chiede che “quanti sono sono sospettati di aver ordinato o commesso crimini di guerra” siano perseguiti.
Mentre Amnesty accusa Israele, il governo di Benjamin Netanyahu continua la politica degli insediamenti in Cisgiordania: oggi il premier israeliano ha approvato la costruzione “immediata” di 300 alloggi nella colonia cisgiordana di Beit El, insediamento alla periferia nord di Ramallah, teatro negli ultimi giorni di duri scontri tra forze di sicurezza e coloni. Inoltre è stato comunicato l’avvio della pianificazione per ulteriori cinquecento alloggi a Gerusalemme Est.
Stamattina la Corte suprema di Gerusalemme ha confermato la demolizione entro domani di due condomini costruiti abusivamente proprio a Beit El, scatenando l’ira della destra nazionalista e del partito di estrema destra Focolare ebraico.
Si è irrigidita ulteriormente la posizione israeliana. Anche Hamas ribadisce le sue condizioni ma in casa palestinese ormai non si parla più ad una sola voce. Abu Mazen vuole accogliere la proposta egiziana di cessate il fuoco
AGGIORNAMENTI
ORE 11 Oltre 2000 i palestinesi uccisi dall’offensiva israeliana “Margine Protettivo”
Il numero di palestinesi uccisi dall’inizio dell’offensiva “Margine Protettivo” contro Gaza ora supera i 2.000, secondo i calcoli fatta dall’agenzia di stampa al-Ray. I morti accertati sono 2.016, mentre i feriti sono stimati in 10.193. La maggior parte degli uccisi – sottolinea l’agenzia – sono bambini, donne e anziani. Altre fonti, come le Nazioni Unite, riferiscono un bilancio leggermente inferiore. Israele da parte sua afferma che circa la metà dei morti palestinesi sarebbero combattenti di Hamas e di altre formazioni armate. Una versione seccamente smentita dai palestinesi.
ORE 9.30 Conferenza donatori dopo tregua duratura
Il governo norvegese ha annunciato che i paesi donatori si riuniranno al Cairo per finanziare la ricostruzione di Gaza quando sarà raggiunto un cessate il fuoco duraturo tra Israele e i palestinesi. I fondi raccolti saranno versati al presidente dell’Autorità nazionale palestinese Abu Mazen, ha precisato Boerge Brende, il ministro degli esteri norvegese, che presiede il comitato di coordinamento degli aiuti internazionali.
Gerusalemme, 18 agosto 2014, Nena News – A mezzanotte termina la tregua di cinque giorni e nessuno – ne’ i dirigenti israeliani ne’ i palestinesi – sanno dire se subito dopo a Gaza riprenderanno i bombardamenti israeliani e i lanci di razzi o se un nuovo cessate il fuoco consentirà la continuazione delle trattative al Cairo. Al momento il governo del premier Netanyahu e il movimento islamico Hamas sembrano escludere la possibilità di un accordo sulla base dell’ultima proposta presentata alle parti dall’Egitto.
Ieri Netanyahu ha avvertito che Hamas ”non può sperare di compensare una sconfitta militare con un successo politico”. E ha ribadito che il suo governo respingerà ogni proposta che non tenga nel dovuto conto gli interessi di sicurezza di Israele, in evidente riferimento alla richiesta israeliana del “disarmo completo di Gaza”.
Immediata la replica del portavoce di Hamas, Sami Abu Zuhri, che ha negato “l’indebolimento” del movimento islamico e ha previsto nuovi combattimenti, questa volta ad Ashqelon, ossia in territorio israeliano. Un alto dirigente di Hamas, Musa Abu Marzouq, ha detto che l’irrigidimento di Israele riporta tutto il negoziato “al punto di partenza”. Abu Marzouq ha escluso un ulteriore prolungamento della tregua alla mezzanotte.
Da Gerusalemme fanno sapere che l’esercito è pronto a sferrare un nuovo durissimo attacco. E’ già stato dato l’ordine di sospendere da oggi i collegamenti ferroviari tra Ashqelon e Sderot, vicino a Gaza, dove si attendono lanci di razzi palestinesi. Il ministro per le questioni strategiche Yuval Steinitz ha escluso categoricamente che Israele possa accogliere la richiesta di Hamas per la costruzione di un porto a Gaza che, a suo dire, diventerebbe un “duty-free per i missili iraniani”.
Presto andrà al Cairo il presidente palestinese Abu Mazen che esorta le parti di accettare la proposta egiziana. Il leader dell’Anp è il più interessato a un accordo immediato di cessate il fuoco, anche se saranno accolte ben poche delle richieste presentate dai palestinesi. Il piano egiziano prevede che siano proprio le sue forze a prendere il controllo dei valichi (sul versante palestinese) con Israele e l’Egitto, e a monitorare l’ingresso e la distribuzione degli aiuti alla popolazione e dei materiali necessari per la ricostruzione.
Al momento la prospettiva più concreta è la ripresa della guerra di attrito tra Israele e Hamas vista nei giorni scorsi tra una tregua e l’altra. Nena News
Tiene la nuova tregua di 72 ore scattata a mezzanotte tra domenica e lunedì e al Cairo ieri sono giunti anche i delegati del governo Netanyahu. E’ perciò ripartito il negoziato indiretto, con la mediazione degli egiziani, per un accordo di cessate il fuoco permanente. Senza grandi possibilità di successo in verità. In Israele tanti invocano l’escalation dell’offensiva militare che pure ha già ucciso circa 2000 palestinesi, per 2/3 civili, e una sessantina di soldati. E proprio intorno ai soldati entrati in mese scorso a Gaza cresce il mito di “Margine Protettivo”. A tal punto che va a ruba persino lo sperma dei militari delle unità di combattimento. L’Ospedale Rambam di Haifa ha comunicato che da quando è cominciata la “nuova guerra” contro Gaza, un numero crescente di donne che si rivolgono alla banca del seme fa richiesta di donatori con un background di combattenti. Sperma guerriero per avere figli più forti. D’altronde lo stesso ospedale permette alle donne che desiderano un bambino di poter scegliere un donatore con un passato nelle unità scelte dell’Esercito.
«Il servizio militare racconta qualcosa della persona», ha spiegato al sito Ynet Dina Aminpour, responsabile della banca del seme del Rambam Hospital, «un uomo che ha servito in un ruolo di combattimento ha una forte costituzione fisica che conferma le aspirazioni genetiche delle donne (che vogliono un figlio, ndr)». Aminpour ha aggiunto che una sessantina di israeliane si rivolgono ogni mese alla banca del seme dell’ospedale. Negli ultimi giorni addirittura la metà ha chiesto donatori con un passato di combattente nell’Esercito, un requisito divenuto importante come l’altezza e il livello di istruzione.
Al Cairo invece si decide della qualità della vita futura dei neonati di Gaza e del diritto di bambini e adulti di vivere una esistenza in dignità e libertà e non più in una prigione a cielo aperto. E’ una richiesta di tutta la popolazione che le varie forze politiche, quindi non solo Hamas, che compongono la delegazione palestinese hanno posto sul tavolo dei mediatori egiziani. Israele da parte sua insiste per la smilitarizzazione della Striscia. Punti su cui entrambe le parti non intendono cedere. Domenica sera da Doha il leader dell’ufficio politico di Hamas, Khaled Meshaal, ha detto che una tregua duratura deve portare alla revoca del blocco alla Striscia di Gaza. Il cessate il fuoco di 72 ore raggiunto con Israele — ha spiegato Meshaal all’agenzia Afp — «è uno dei mezzi o delle tattiche destinate alla riuscita dei negoziati o alla distribuzione degli aiuti umanitari. Il nostro obiettivo è che le richieste palestinesi siano soddisfatte e che la Striscia viva senza blocco». Un’intervista alla quale il governo Netanyahu ha risposto con le dichiarazioni del ministro per la sicurezza interna Yitzhak Aharonovich. «C’è poca speranza di raggiungere un accordo. Ci vorrebbe un mago – ha commentato il ministro — A mio giudizio alla fine delle 72 ore si tornerà ai combattimenti e Israele deve pensare al passaggio successivo».
L’incubo della ripresa della “guerra di attrito” vista negli ultimi giorni (almeno 15 morti tra i palestinesi, gran parte dei quali civili) o di una nuova pesante escalation militare, grava sulla Striscia di Gaza mentre le organizzazioni umanitarie continuano la distribuzione agli sfollati. Tante famiglie, approfittando della tregua, ieri sono tornate a casa. Ma chi la casa l’ha perduta nei devastanti bombardamenti del mese scorso – circa 80mila persone, secondo fonti locali – non può fare altro che vivere nelle scuole dell’Unrwa.
Fioriscono nel frattempo le iniziative internazionali a sostegno dei palestinesi di Gaza e dei loro diritti. L’Ong turca IHH ha comunicato ieri di volere organizzare un nuovo convoglio navale per rompere il blocco di Gaza attuato da Israele. La IHH aveva organizzato assieme alla Freedom Flotilla la spedizione del maggio 2010, bloccata in acque internazionali l’arrembaggio dai commando israeliani saliti a bordo della nave Mavi Marmara (9 attivisti uccisi). Un assalto che aveva provocato il gelo nelle relazioni fra Tel Aviv e Ankara che dura ancora oggi nonostante un tentativo di riconciliazione mediato l’anno scorso da Washington, che aveva portato alle scuse di Israele e all’avvio di una trattativa sull’indennizzo delle famiglie delle vittime.
L’Associazione della stampa estera in Israele e nei Territori palestinesi occupati (Fpa), intanto protesta per i metodi che descrive come «poco ortodossi» usati dalle autorità di Hamas e dai loro rappresentanti nei confronti dei giornalisti internazionali lo scorso mese a Gaza. «In molti casi – dice la Fpa — giornalisti stranieri sono stati molestati, minacciati o interrogati su storie o informazioni riportate nei loro media o sui social media». La Fpa afferma di aver appreso che Hamas starebbe cercando di mettere in piedi una procedura di ‘valutazione’ per schedare alcuni giornalisti.
Il Diplò d’agosto. Con quest’analisi di Alain Gresh, che racconta la tradizione di resistenza della popolazione palestinese, iniziamo a pubblicare alcuni articoli del Diplo di agosto: che questo mese non trovate in edicola come sempre in allegato, ma nelle pagine del quotidiano
Elemosina e complicità. In gioco c’è la questione, ormai, ineludibile dei diritti del popolo palestinese
Le famiglie erano tornate nelle loro case senza trovarle, i bambini giocavano vicino ai funerali dei loro coetanei, i pescatori gettavano reti senza speranza. 72 ore senza bombardamenti israeliani, ma dal Cairo non potevano arrivare né l’estensione della tregua né la pace. Perché i palestinesi sono soli. Per i governi europei, che i territori palestinesi restino occupati è un fatto marginale. Il governo italiano dell’ex scout Renzi che ha taciuto su tutti massacri di questi giorni, è impegnato in uno sforzo di diplomazia parrocchiale: invia alla gente di Gaza, pensate, 30 tonnellate di aiuti. Gli aiuti servono e quel che resta della sinistra deve raccoglierli, a partire dai medicinali e sostenendo le organizzazioni umanitarie palestinesi. Ma per favore basta elemosina e complicità. Perché l’Italia tace sul Trattato militare in vigore con Israele e non fa come la Spagna che, simbolicamente, ha fermato per un mese l’import-export di armi con Israele.
Si è preferito dimenticare che la tregua annunciata di fatto era unilaterale e che Israele andava al Cairo solo per dettare condizioni: zona smilitarizzata, e di più, tutta Gaza smilitarizzata, fine dei tunnel e dei razzi, verso l’esclusione di Hamas dal governo della Striscia, come dichiara il ministro israeliano Tzipi Livni. I 29 giorni di «Margine protettivo», con la strage di quasi duemila palestinesi uccisi, in maggioranza civili e tanti bambini, di ottomila feriti tra cui molti gravissimi e senza cure adeguate, di centinaia di migliaia di senza casa con l’odio che è stato seminato, non hanno certo aperto nuovi spiragli alla crisi.
Che non è il «conflitto israelo-palestinese» come scrivono i giornalisti embedded — ma nemmeno il giornalismo che abbiamo conosciuto esiste più? -, come se fossero due parti eguali, due stati legittimi e due eserciti di eguale forza. No. In gioco c’è la questione, ormai, ineludibile dei diritti del popolo palestinese.
A meno che non si voglia approfittare della perversione coloniale dei tanti governi israeliani, non solo di Netanyahu: una guerra breve ogni due-tre anni con un deserto chiamato pace, quel tanto da mettere la questione dei diritti del popolo palestinese in sordina, sullo sfondo, grazie alle distruzioni e alle falsificazioni che allontanano la consapevolezza di un misfatto: il blocco di Gaza. Che deve essere tolto, e questo obiettivo non dovrebbe essere solo di Hamas ma del mondo intero. Che dovrebbe ricordare che il blocco è stato imposto da Israele — invece di rispondere alla necessità di un corridoio di collegamento tra Gaza e Cisgiordania occupata in vista della nascita dello Stato di Palestina — per arginare l’emergenza rappresentata da Hamas, che nel 2006 vinse le elezioni palestinesi non solo a Gaza ma in tutta la Cisgiordania, affermandosi in alternativa alla nuova leadership di Al Fatah emersa dopo l’umiliazione di Arafat chiuso dai carri armati israeliani a Ramallah nel 2002 e la sua uccisione nel 2004. Una leadership giudicata dagli stessi palestinesi corrotta e contaminata dal legame con le intelligence occidentali, quella Usa in primis, impegnate a controllare e ad infiltrare ogni scelta autonoma dell’Autorità nazionale palestinese e a reprimere ogni dissenso e radicalità. Qualcuno ricorda le modalità dell’arresto dell’unico vero leader del popolo palestinese, Marwan Barghouti? La rottura tra Hamas e Fatah fu anche violenta a Gaza City e viceversa a Ramallah. Ma dopo sei anni, e soprattutto di fronte all’inasprirsi dell’occupazione militare israeliana, delle colonie, del Muro che sarà raddoppiato, della rapina delle acque e della distruzione dell’agricoltura palestinese, della riduzione della West Bank in una grande prigione di cemento, ecco che è tornata l’unità tra i palestinesi di Gaza e di Cisgiordania. Ecco il vero «razzo Qassam» che Netanyahu non può sopportare.
Certo Hamas ha le sue responsabilità. I razzi che lancia non sono nemmeno la guerra asimmetrica di una guerriglia armata: sono un niente controproducente, un regalo a Netanyahu. E vantare «vittoria» come fanno le Brigate Ezzedin al Qassan sembra un triste delirio d’impotenza. Ma tra le macerie emergono alcune novità e una verità. In questi giorni — mentre, nonostante le distruzioni della guerra, sembra crescere anche in Cisgiordania il consenso per Hamas e in calo quello da Al Fatah — l’Anp chiede alla Corte dell’Aja le modalità per aderire al Tribunale penale internazionale dell’Onu e incriminare così il governo israeliano. Se è ingenuo pensare che l’iter andrà davvero avanti, non va dimenticato che la richiesta di aderire alle Agenzie dell’Onu resta l’ultima occasione per la credibilità di Abu Mazen e l’ultima vera possibilità palestinese; mentre cresce la solidarietà inter-palestinese con un pezzo del proprio popolo che vive nell’altra prigione di Gaza, dove se resta il blocco – e i valichi con l’Egitto chiusi dal golpista Sisi -, sarà inevitabile e giusto scavare altri tunnel per vivere e far entrare beni di prima necessità. E la verità, amara, è che se Hamas smettesse subito di lanciare i razzi, la condizione palestinese resterebbe sempre la stessa: un popolo esiliato in tutto il Medio Oriente, abitante dei campi profughi nella sua stessa terra, chiuso da Muri di recinzione e posti di blocco, invaso da una ragnatela di colonie d’occupazione e insediamenti che hanno cancellato la continuità territoriale dello Stato di Palestina, che rubano occasioni di vita e lavoro, diviso in due territori, uno alla mercé della guerra breve continua, l’altro semplicemente colonizzato e zittito. E senza alcuna prospettiva di integrazione con il nemico occupante, se non lo status perenne di occupato.
<CW-5>Jimmy Carter, l’ex presidente americano che ora chiede all’Occidente di riconoscere Hamas, ha titolato «Apartheid» il suo bel libro sulla condizione palestinese. Obama purtroppo, a quanto pare, non l’ha nemmeno sfogliato.
Amira Hass, storica corrispondente di Haaretz dai Territori palestinesi occupati, spiega ai lettori la legittimità delle richieste presentate dalla delegazione palestinese ai negoziati del Cairo, terminati ieri senza alcun risultato. «Aprite il valico di Erez, subito», esorta la giornalista. «È una richiesta urgente per la delegazione palestinese al Cairo: non lasciate che gli israeliani ingannino voi e il resto del mondo con accordi per la gestione del valico di Rafah, per il colore delle uniformi indossate dai soldati di Mahmoud Abbas, quante unità, e quali debbano essere le modalità del saluto».
«A questo punto – prosegue — non insistete sull’aeroporto o il porto a Gaza. Focalizzatevi sul ripristinare il fondamentale, naturale, logico collegamento tra la Striscia di Gaza e la Cisgiordania. Insistete che venga immediatamente riattivata la libera circolazione dei palestinesi tra di loro (non solo pochi commercianti e alti funzionari). Questo dovrebbe essere il vostro principale obiettivo».
«La classe dirigente israeliana – ha spiegato Hass — i commentatori e la maggior parte della loro opinione pubblica considerano la richiesta di collegare la Striscia e la Cisgiordania come “ridicola”. Questa parola incarna l’arroganza aggressiva di Israele. L’Egitto ha giustamente paura dell’intenzione di Israele di riaffidargli la Striscia, i suoi abitanti e i suoi problemi. Approfittate di questa paura. Questo è quello che fin dal 1990 Israele ha cercato di ottenere — creare énclaves palestinesi, isolarle e trasformare la Striscia in un’entità politica separata».
La giornalista israeliana sottolinea anche il ruolo negativo svolto dai dirigenti dell’Autorità nazionale palestinese che, a suo dire … «hanno trascurato l’elementare richiesta che venisse rispettato il diritto alla libera circolazione. I dirigenti dell’Anp si sono accontentati del privilegio di poter passare per il valico di Erez… (Eppure) La separazione tra Striscia e Cisgiordania può essere revocata».
Hass sottolinea l’abilità nel combattimento mostrata dall’ala militare di Hamas. «C’è qualcuno che credeva che un’organizzazione palestinese avrebbe potuto pianificare una campagna militare che avrebbe mandato in confusione in questo modo il numero 1 degli esportatori di droni? Chi immaginava che un’organizzazione palestinese avrebbe potuto imparare dai propri errori nel 2008–2009 e sfidare la potenza militare di Israele?»… Tuttavia, aggiunge la giornalista israeliana rivolgendosi ad Hamas, «questa sorprendente capacità militare sarà inutile se non viene trasformata in un cambiamento del vostro modo di pensare sul piano civile. Avete riscoperto la Cisgiordania dopo che i vostri canali con l’Egitto si sono interrotti. Per cui siete passati al governo di riconciliazione. L’uccisione indiscriminata dei residenti gazawi da parte di Israele ha fatto rinascere in loro una presa di coscienza sull’Olp e sui palestinesi della Cisgiordania».
Secondo Hass «è il momento per chiedere: aprite il valico di Erez. Israele, al solito, griderà “Sos sicurezza”. Lasciatelo gridare. Non ci potrà essere sicurezza per Israele finché non riconosceranno ai palestinesi il diritto alla vita, e di vivere con dignità».
Infine rivolgendosi ancora ai delegati palestinesi, la giornalista li esorta a chiedere «che il mondo paghi il conto per le sue dichiarazioni. Tirate fuori tutte le relazioni della Banca Mondiale, del Fondo Monetario Internazionale e dell’EU. Non vi è ricostruzione dell’economia palestinese, di Gaza, non c’è nessuna vita, finché la gente e le merci non potranno circolare liberamente. Questo comprende la possibilità di esportazioni da Gaza, studiare nelle università, pregare a al-Aqsa e mangiare l’hummus nella Città Vecchia. La possibilità di viaggiare da Nablus alla spiaggia di Beit Lahia».
«La Striscia – conclude — smetterà di essere un enorme campo di concentramento solamente quando ci vorrà un’ora di autobus tra Gaza e la Cisgiordania, al costo di 32 shekels andata e ritorno, con uno sconto per i bambini e per le famiglie numerose».
Striscia di Gaza. Israele e Hamas si accusano a vicenda di aver fatto fallire la tregua. Tel Aviv chiede la restituzione immediata del militare catturato e accusa il movimento islamico di aver eseguito dopo le ore 8, quindi in piena tregua, un piano organizzato da tempo. Gli islamisti replicano che tutto è accaduto prima della tregua e durante combattimenti per respingere un’avanzata di mezzi corazzati israeliani
Israele e Hamas continuano a scambiarsi l’accusa di aver provocato ieri il fallimento della tregua umanitaria di 72 ore che avrebbe dovuto aprire la strada a un possibile accordo di cessate il fuoco permanente. E ad aggiungere benzina sul fuoco è stato l’attacco contro un’unità israeliana che si è conclusa con l’uccisione di due soldati e la cattura di un tenente della Brigata Ghivati, Hadar Goldin, 23 anni. Il Segretario di stato John Kerry ha già deciso per Israele «Gli Stati Uniti condannano la vergognosa violazione da parte palestinese del cessate il fuoco», ha detto unendosi a una condanna analoga giunta in precedenza anche dalla Casa Bianca. «Hamas deve liberare immediatamente il soldato israeliano rapito», ha aggiunto. Poco dopo il segretario generale dell’Onu, Ban Ki-moon, ha denunciato anche la violazione del cessate il fuoco umanitario attribuendola ad Hamas. Condanne, appelli alla liberazione del soldato ed espressioni di solidarietà a Israele sono giunte per tutto il giorno nell’ufficio del primo ministro, rafforzando la determinazione di Netanyahu di avviare un’offensiva militare a Gaza persino più ampia di quella attuata a luglio. «Faremo tutto ciò che è necessario per difendere gli israeliani», ha avvertito perentorio Netanyahu prima della riunione del governo volta a decidere la risposta, prevedibilmente dura, all’uccisione dei due soldati e alla cattura dell’ufficiale.
Già ieri mattina le cannonate dei mezzi corazzati hanno fatto 62 morti e 250 feriti a Rafah, dove, secondo testimoni, hanno anche danneggiato l’ospedale al Najar del quale ieri sera l’esercito israeliano ha chiesto l’evacuazione. E’ stata colpita povera gente, persone che erano in strada perchè credevano che ci fosse la tregua e che invece sono state uccise. Per Israele, che ritrova in questa occasione il pieno sostegno di Washington, Hamas ha compiuto il rapimento del soldato con un piano ben organizzato e nel pieno della tregua umanitaria scattata alle 8. La versione del movimento islamico è molto diversa. Gli islamisti sostengono che tutto è avvenuto prima delle 8 e aggiungono che il militare è stato fatto prigioniero durante combattimenti innescati da un’avanzata di carri armati israeliani a Rafah. Oggi la delegazione palestinese, con rappresentanti di Hamas e guidata dal presidente Mahmud Abbas, andrà al Cairo per negoziare il cessate il fuoco con la mediazione egiziana. Ma difficilmente sarà raggiunta in serata da quella israeliana. Il governo Netanyahu, dicevano ieri sera le indiscrezioni, dovrebbe lanciare un ultimatum ad Hamas: liberate subito il soldato o per Gaza sarà l’inferno.
Ieri dopo le 8 le strade di Gaza city e del resto della Striscia si erano immediatamente popolate, nonostante il venerdì islamico che, di solito, spinge la popolazione a cominciare tutte le attività solo dopo la preghiera di mezzogiorno. Dal porticciolo di Gaza le barchette dei pescatori una dopo l’altra sono uscite in mare per gettare finalmente le reti. Poco dopo i pescatori più veloci hanno prontamente allestito i banchetti per la vendita del pesce fresco. Il traffico automobilistico si è fatto subito sostenuto, soprattutto nei quartieri popolari, e per la prima volta un buon numero di commercianti ha riaperto i negozi tenuti chiusi dall’8 luglio. La gente credeva alle possibilità di questa tregua di 72 ore, a differenza delle “finestre umanitarie” dei giorni scorsi durante le quali non sono mancate le stragi, come l’altro giorno a Shujayea dove un missile israeliano ha colpito la zona del mercato uccidendo una ventina di civili. Ma non sono stati solo momenti intensi, seppur brevi, di relax dopo oltre tre settimane di raid aerei e bombardamenti israeliani. Per molti sfollati la tregua ha significato la possibilità di lasciare per qualche ora le scuole dell’Unrwa e gli altri rifugi per recarsi alle case, o a ciò che rimane delle loro abitazioni, per cercare di recuperare qualcosa di utile, risparmiato dalla violenza delle cannonate e dal crollo di muri e soffitti.
Un fiume umano, non appena sono scoccate le 8, si è messo in movimento verso Shujayea, Beit Hanun, Beit Lahiya e Jabaliya le aree orientali di Gaza maggiormente colpite dai tiri dell’artiglieria o dai missili sganciati da F-16 e droni israeliani. Un mare di uomini, donne, bambini con in mano buste di plastica e borse. I più fortunati sono arrivati a bordo di carretti tirati dall’asino e di vecchi furgoni. Al sollievo di chi ha ritrovato in piedi la sua abitazione o danneggiata solo parzialmente, si è contrapposto il silenzio triste di chi ha perduto tutto e non ha potuto recuperare neppure un oggetto, un ricordo di una vita trascorsa tra le pareti domestiche. «La nostra casa non c’è più, dove andremo ora, come vivremo, non abbiamo più nulla», ripeteva una giovane avvolta nel velo nero, seduta sulle macerie della casa. Parole che ripetevano tanti ieri, non solo a Shujayea. L’emergenza dei sfollati è immensa. Le agenzie umanitarie stanno facendo il possibile, assieme ad ong locali ed internazionali per portare materassi, cibo, acqua e medicine a chi è stato costretto ad abbandonare le abitazioni sotto la spinta dell’avanzata dei mezzi corazzati e l’urto delle cannonate israeliane.
E già si annuncia lo slittamento dell’inizio dell’anno scolastico previsto a fine agosto. Tutti a Gaza sono convinti che l’attacco israeliano non avrà termine presto e che molte scuole, non solo quelle dell’Unrwa, rimarranno occupate dagli sfollati per mesi. E ora si rischiano anche le malattie infettive. La ong britannica Oxfam lancia l’allarme «Mentre cresce il numero degli sfollati intrappolati a Gaza (arrivati a 450 mila) e continua l’uccisione di minori (253 le vittime accertate tra i bambini) – scrive la Ong internazionale — esplode il rischio di epidemie tra la popolazione a causa dell’assenza di servizi igienici e della mancanza o contaminazione da liquami dell’acqua…sono già 30 i casi di meningite tra i minori, mentre stanno aumentando anche i rischi di malattie della pelle e di gastroenterite tra la popolazione». Oxfam è al lavoro a Gaza per aiutare 97.000 persone. Dall’inizio del conflitto ha fornito acqua potabile a più di 74.000 palestinesi e distribuito buoni d’acquisto per beni di prima necessità ad altri 15.891. E’ al lavoro sono anche il “Centro Italiano– Vittorio Arrigoni”, le ong e le associazioni italiane e varie organizzazioni palestinesi, che hanno raccolto fondi in Italia per comprare medicine per gli ospedali di Gaza e altri fondi nei Territori occupati per acquistare materassi, latte per i bambini, taniche dell’acqua e kit per la cucina, bombole del gas, abiti. Beni che sono già andati a mille famiglie. E presto grazie a nuovi fondi saranno aiutate altre mille famiglie.
Si è pianto non solo per le case perdute ma anche per mariti, figli, mogli, sorelle, genitori morti nei raid e nei cannoneggiamenti israeliani. Dalle macerie di Khusaa, tra Khan Yunis e Rafah, a brevissima distanza dalle linee di demarcazione tra Gaza e Israele, continuano ad emergere i corpi degli uccisi nei giorni scorsi. Il villaggio resta area militare chiusa ma ieri i reparti corazzati israeliani, sia pure per pochi minuti, hanno permesso ai residenti di avvicinarsi lungo la strada principale. Khusaa, hanno scoperto i suoi abitanti, ormai è una lunga striscia di edifici distrutti, moschee sventrate, pilastri rimasti miracolosamente in piedi. A mani nude, senza mascherine sul volto per proteggersi dalla puzza insopportabile dei corpi in decomposizione, molti hanno potuto riconoscere i loro cari solo dagli indumenti o dall’orologio. Hanno scoperto in stanze semidistrutte, sotto un pilastro caduto, tra pietre e polvere, i cavaderi di amici che mancano all’appello da giorni. Un giovane tra le lacrime ha chiamato i giornalisti ad osservare sei corpi di carbonizzati in una casa distrutta solo in parte. Le stesse scene si sono viste a Abasan, Bani Suheila, Khan Yunis, In questa zona sono morte circa 250 persone in attacchi aerei e tiri dell’artiglieria. Quando saranno recuperati tutti i corpi rimasti sotto le macerie, il bilancio di vittime palestinesi dell’offensiva israeliana si allungherà in modo drammatico, arrivando a numeri da vera e propria carneficina, ben oltre i 1.500 già raggiunti ieri.
In Palestina non c’è solo Hamas, ci sono partiti diversi come in Israele e come in qualsiasi altra parte del mondo. In Palestina ci sono anche forze laiche e anticapitaliste, sicuramente quelle a cui noi ci sentiamo più vicini. Abbiamo chiesto ad Ares, un compagno palestinese, un contributo per la pagina che pubblichiamo con grande piacere.
«Il più grande colpevole di quello che sta succedendo a Gaza è semplicemente il capitalismo. E tutti i suoi figli, sionismo, colonialismo, nazionalismo, li trovi sempre lì a distribuire disuguaglianza, morte, distruzione e profitti per pochi.
Perché non sono gli ebrei che bombardano Gaza, ma idioti che si nascondono dietro un’idea di nazionalismo religioso, che si chiama sionismo ed è nato 100 anni fa da uomini d’affari che cercavano una terra dove fare uno Stato. Ma gli ebrei già vivevano in Palestina, convivevano con cristiani e musulmani. Ebrei, musulmani e cristiani hanno sempre convissuto in tutto in tutto il mondo arabo, dal Marocco allo Yemen.
Ed è sempre la logica del profitto e del nazionalismo che ha portato a credere alla possibilità di due Stati, quella logica che sta alla base degli accordi di pace di Oslo 1994, che di pace non hanno proprio niente.
Con gli accordi di Oslo non ha vinto la pace, ma ha vinto il capitalismo. Gli accordi hanno diviso quello che non c’era più da dividere in Palestina. Così adesso esistono tre zone: A, B, C. La prima sotto controllo dell’OLP (in realtà, nell’ultimo mese, l’IDF ha scorrazzato ovunque volesse in tutti i villaggi palestinesi), una zona B sotto controllo congiunto e la zona C completamente israeliana. Qui Israele continua a costruire le sue colonie in casa d’altri. Questi accordi garantiscono anche che il controllo dell’ingresso in Palestina sia fatto da soldati con la stella di David, la moneta è lo sheqel di Tel Aviv, la corrente elettrica la devi comprare da Tel Aviv, gli stessi fondi dell’OLP possono essere manovrati da Israele.
Questa macchina ha creato il colonialismo dei Territori, a vantaggio dei dirigenti dell’OLP che, come avviene in ogni regime coloniale e anche nella povera e arretrata Palestina, sono diventati classe medio-borghese. Quella dei privilegiati, che se ne sta a Ramallah lontano dai conflitti. Quella che per tutelare i suoi privilegi ha svenduto tutto e non vede, o forse non vuole vedere, cosa succede a pochi chilometri. Così ci si è trovati ad avere uno Stato di Palestina dove il governo non combatte il suo peggior nemico, il sionismo, ma l’appoggia; dove non arriva la repressione dell’IDF arrivano i soldatini di Abbas, la resistenza è stata quasi completamente smantellata, tutti sacrifici in cambio di nulla. Perché mentre si reprime in Cisgiordania, il sionismo continua a costruire, a rubare terre, umiliare, uccidere e arrestare.
La divisone palestinese è dovuta a ragioni politiche che si intrecciano con quelle economiche. In una struttura sociale dove la disoccupazione è alta e il più grande datore di lavoro è lo stesso Stato con ministeri, scuole, burocrazia… se sei di un partito lavori e mangi, se non lo sei non mangi (vedi l’adesione allo sciopero generale, quando vinse Hamas nel 2006: la Palestina si blocco perché Israele non pagava gli stipendi e tutti i funzionari pubblici sono di Fatah).
Quello che sta succedendo a Gaza e il risultato di non voler chinar la testa, i gazawi sono per la maggior parte profughi, di ogni guerra che ha devastato la Palestina. Qua non ci sono zone A, B e C, è tutto un grande ghetto: 36 km quadrati, quanto un comune di 200000 abitanti in Italia, solo che ci vivono quasi 2 milioni di persone. A Gaza non si sta punendo Hamas perché lancia i razzi: parlare di Hamas, vuol dire che ci si è fatti lobotomizzare una parte del cervello dai giornali. Hamas non è solo un partito, è anche una parte della società palestinese.
Punire Hamas a Gaza è una bugia, perché tutte le fazioni politiche hanno il loro braccio armato e tutte combattono per la resistenza, che sia Hamas, Jihad Islamica, Al Fath, il Fronte Popolare, tutti combattono, tutti lanciano i razzi, tutti resistono. Questa non è guerra: è resistenza. L’autodeterminazione di un popolo che non vuole essere schiavo di un altro, se ci sta simpatico il 25 aprile in Italia, dovremmo sostenere anche questa lotta.
I motivi veri di questa nuova macelleria, possono essere tantissimi: dallo sfruttamento delle risorse idriche e minerarie del territorio, alla pulizia etnica per ridurre in maniera drastica un popolazione che cresce al ritmo del 4% annuo, una rioccupazione del territorio che Israele ha lasciato nel 2005.
Quello che accade oggi a Gaza non è diverso da piombo fuso, solo che ci sono più internazionali a testimoniare che cadono le bombe, mentre con piombo fuso c’era solo Vik, Vittorio Arrigoni, a raccontarci con gli occhi pieni di lacrime quello che succedeva.
Il vero problema della Palestina e che a nessuno importa dei palestinesi, noi comunque restiamo umani, alzando le dita in segno di vittoria perché resistiamo, che sia in Palestina, in Libano, in Giordania, in qualsiasi parte del mondo dove sono esuli, sappiamo qual è la parte della barricata dove dobbiamo stare.»