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L’ULTIMA

Militarmente scorrette

Intervista. Un incontro con la sociologa Andrée Michel, madrina dell’appello per la creazione di un tribunale internazionale per la Repubblica Democratica del Congo, dove le donne sono «bottino di guerra»

Non ha mai smesso d’incoraggiare le donne a essere «cit­ta­dine mili­tar­mente scor­rette». Oggi, a 93 anni, Andrée Michel è una delle più attive madrine dell’appello per la crea­zione di un tri­bu­nale inter­na­zio­nale per la Repub­blica Demo­cra­tica del Congo (Rdc), dove dal 1996 più di 500mila donne sono vit­time di stu­pri «arma da guerra». Diret­trice ono­ra­ria del Cen­tro Nazio­nale di Ricerca Scien­ti­fica (Cnrs), è stata sin dagli anni ’50 una delle prin­ci­pali pio­niere tran­sal­pine della ricerca sociale sulla con­di­zione fem­mi­nile. Prima socio­loga in Fran­cia a fare del com­plesso mili­tare indu­striale (Cmi) occi­den­tale il suo campo d’indagine, le sue ana­lisi hanno susci­tato grande inte­resse nei movi­menti fem­mi­ni­sti e anti­mi­li­ta­ri­sti inter­na­zio­nali, e restano di grande attua­lità, offrendo chiavi essen­ziali per com­pren­dere lo stato di guerra per­ma­nente contemporaneo.

PUÒ SPIE­GARE IL CON­CETTO DI COM­PLESSO MILI­TARE INDUSTRIALE?

Sono nata nel 1920 in una fami­glia molto col­pita dalla car­ne­fi­cina del ’14–18 — il fra­tello di mio padre è stato ucciso il primo giorno di guerra, men­tre mio padre, che aveva perso un brac­cio in bat­ta­glia, è stato pri­gio­niero dei tede­schi per quat­tro anni — nella mia infan­zia non si par­lava d’altro. Visti poi gli effetti della seconda guerra mon­diale e dei diversi con­flitti della Fran­cia per con­ser­vare l’impero colo­niale (Indo­cina, Alge­ria, ecc.), e non avendo mai sepa­rato le mie ricer­che da quello che vivevo, con­si­de­ravo che la teo­ria fem­mi­ni­sta dovesse ana­liz­zare la società patriar­cale anche sotto il suo aspetto mili­tare. Ma la socio­lo­gia della guerra non esi­steva in Fran­cia: all’inizio, mi sono state utili le ricer­che di alcune uni­ver­sità sta­tu­ni­tensi che ave­vano stu­diato il com­plesso mili­tare indu­striale del loro paese, nato dall’alleanza tra i grandi indu­striali dell’armamento e gli alti diri­genti dell’esercito, il cui potere si era for­te­mente con­so­li­dato pro­prio con la seconda guerra mon­diale. Per raf­for­zarsi ulte­rior­mente occor­reva loro un nuovo nemico e l’Urss è stato il primo di una lunga serie di alleati ricon­ver­titi in que­sto ruolo. Durante la seconda guerra mon­diale era alleato degli Usa, i quali temendo l’estendersi della sua influenza sull’Europa, che loro stessi inten­de­vano domi­nare, ne hanno fatto il nemico n. 1 di quella Guerra Fredda che ha riem­pito gli arse­nali ato­mici ad est ed ovest del muro di Ber­lino. Mal­grado già all’epoca dell’installazione dei Per­shing in Ger­ma­nia, dei mili­tari d’alto rango fran­cesi qua­li­fi­cas­sero la minac­cia dell’invasione sovie­tica in Europa come una mon­ta­tura per giu­sti­fi­care spese colos­sali per armi di cui non si aveva alcun biso­gno, tutti i governi ci hanno cre­duto. Le spese mili­tari con­se­guenti hanno raf­for­zato ulte­rior­mente i prin­ci­pali Cmi occi­den­tali e con­tri­buito alla rovina eco­no­mica dell’Urss e alla sua dissoluzione.

Oggi gli inter­venti mili­tari ven­gono giu­sti­fi­cati in nome della difesa della demo­cra­zia e della popo­la­zione civile…

Tanto il Pen­ta­gno che il mini­stero della difesa hanno ser­vizi spe­ciali molto effi­caci nel for­nire gli argo­menti neces­sari a far accet­tare all’opinione pub­blica le spese e gli inter­venti mili­tari. L’attuale mis­sione in Africa Cen­trale, che è un’occasione d’oro per l’industria mili­tare fran­cese, per la quale era urgente «tro­vare nuovi mer­cati di espor­ta­zione», è stata evi­den­te­mente media­tiz­zato come difesa della demo­cra­zia e per ragioni uma­ni­ta­rie. Die­tro que­sti nobili para­venti delle guerre con­tem­po­ra­nee, si celano obiet­tivi meno pre­sen­ta­bili che, oltre ai pro­fitti gigan­te­schi per i Cmi, inclu­dono quello d’impadronirsi delle risorse e mate­rie prime di quei paesi. Men­tre nei nostri le spese mili­tari con­ti­nuano a sot­trarre ingenti risorse pub­bli­che ai ser­vizi essen­ziali per la popolazione.

Lei ha stu­diato par­ti­co­lar­mente il Cmi fran­cese, qual è la sua specificità?

La Fran­cia segue lo stesso modello degli altri Cmi del pia­neta che, va ricor­dato, oltre ai mili­tari e gli indu­striali, inclu­dono le ban­che, i labo­ra­tori scien­ti­fici che ela­bo­rano nuovi sistemi d’arma, i par­titi poli­tici e i mass-media. Ma a dif­fe­renza di altri, la Fran­cia è una nazione con più di mille anni di sto­ria mili­tare, anzi lo stesso modello mili­tare ha ispi­rato lo stato fran­cese, con a capo un potente monarca, inteso in senso pro­prio o in senso repub­bli­cano di pre­si­dente, che limita il potere del par­la­mento rispetto al governo. Il che faci­lita le cose per il Cmi dato che riduce dra­sti­ca­mente il numero di per­sone da influen­zare per otte­nere una poli­tica con­sona ai suoi inte­ressi. Nello stesso tempo, viste le sue risorse finan­zia­rie, il Cmi agi­sce anche a livello ideo­lo­gico e cul­tu­rale: per fare solo un esem­pio, i grandi indu­striali dell’armamento hanno acqui­stato case edi­trici, rivi­ste, gior­nali, canali tele­vi­sivi, arri­vando sem­pre più a neu­tra­liz­zare il dis­senso. Lo stesso vale per la mag­gior parte delle fem­mi­ni­ste, con­tra­ria­mente ai paesi anglos­sas­soni, dove l’analisi delle donne ha pro­dotto impor­tan­tis­sime rifles­sioni sul legame essen­ziale tra fem­mi­ni­smo e antimilitarimo.

Ha defi­nito il Cmi « una for­ma­zione sociale aggra­vata del patriar­cato». in che senso?

La mili­ta­riz­za­zione raf­forza e con­so­lida a tutti i livelli il domi­nio patriar­cale. Per fun­zio­nare il sistema mili­tare neces­sita della sot­to­mis­sione degli uomini, che devono obbe­dienza asso­luta alla gerar­chia. Per­ché que­sti accet­tino la loro stru­men­ta­liz­za­zione, si per­mette loro di stru­men­ta­liz­zare le donne. Nei paesi dove da decenni ven­gono «espor­tate» le guerre, le basi e gli inter­venti mili­tari dei Cmi occi­den­tali, si con­cre­tizza nella pro­sti­tu­zione for­zata, negli stu­pri e nei fem­mi­ni­cidi, pra­ti­che tol­le­rate quando non auto­riz­zate uffi­cial­mente. Nella Repub­blica Demo­cra­tica del Congo, da anni le donne ven­gono siste­ma­ti­ca­mente vio­len­tate, tor­tu­rate, e uccise. L’obiettivo è trau­ma­tiz­zare la popo­la­zione locale e for­zarla all’esodo per sgom­be­rare il loro ter­ri­to­rio e per­met­tere a certi capi di stato afri­cani, e alle potenze occi­den­dali che li sosten­gono, di impa­dro­nirsi delle ric­chezze del sot­to­suolo. È per met­tere fine all’impunità di que­sti cri­mini che chie­diamo all’Onu l’istituzione di un tri­bu­nale penale inter­na­zio­nale per la Rdc che suc­ceda a quello del Ruanda in chiu­sura alla fine di quest’anno.

Nella sua ana­lisi lei evi­den­zia come la vio­lenza sulle donne venga «reim­por­tata» nei paesi occi­den­tali attra­verso i sol­dati tor­nati dal fronte.

Diverse ricer­che hanno dimo­strato che gli uomini che sono stati in guerra ten­dono a diven­tare più vio­lenti al loro ritorno nella vita civile. Dalle donne serbe, i cui mariti rien­tra­vano dai com­bat­ti­menti in Croa­zia e in Bosnia, alle irlan­desi sia di parte pro­te­stante che cat­to­lica, tutte hanno testi­mo­niato dell’apparizione di com­por­ta­menti vio­lenti e bru­tali da parte dei loro con­giunti di ritorno dalle ope­ra­zioni mili­tari. Ma c’è di più. Eser­ci­tare un’identità da adulto per un cit­ta­dino di una società mili­ta­riz­zata come la nostra signi­fi­che­rebbe porre il pro­blema delle spese mili­tari e delle guerre con una men­ta­lità respon­sa­bile, inter­ro­gare le auto­rità, opporsi, for­mare dei movi­menti per evi­tare i con­flitti armati e sra­di­care la vio­lenza. Ma la mag­gior parte degli uomini non lo fa, non solo per­ché sono socia­liz­zati fin dall’infanzia alla vio­lenza, ma anche per­ché si per­mette loro di domi­nare le donne. Il fem­mi­ni­smo ha fatto molto, ma la mili­ta­riz­za­zione impe­rante con­ti­nua a favo­rire la loro stru­men­ta­liz­za­zione come oggetti sessuali

Lei rimette anche in discus­sione il dogma secondo il quale la spesa mili­tare favo­ri­rebbe la cre­scita eco­no­mica e au

men­te­rebbe l’occupazione.

Ricer­che di eco­no­mi­sti Onu e indi­pen­denti dimo­strano che la cre­scita eco­no­mica è inver­sa­mente pro­por­zio­nale alle spese mili­tari, meno gene­ra­trici di occu­pa­zione di altre spese pub­bli­che, in estrema sin­tesi più aumenta la spesa mili­tare tanto più cre­sce la disoc­cu­pa­zione, quella fem­mi­nile in pri­mis. Ora, quando la classe domi­nante vuole inde­bo­lire il potere di nego­zia­zione della classe domi­nata, non c’è niente di più effi­cace del ridurre l’occupazione, dato che la paura di per­dere il posto por­terà i lavo­ra­tori e i loro rap­pre­sen­tanti ad accet­tare il restrin­gi­mento dei loro diritti.
Del resto, nella nuova divi­sione inter­na­zio­nale del lavoro, che ha gli stessi effetti e per­mette alle mul­ti­na­zio­nali di mas­si­miz­zare i pro­fitti con le delo­ca­liz­za­zioni, la vio­lenza mili­tare è onni­pre­sente tanto per repri­mere le rivolte dei con­ta­dini e ope­rai locali, che da noi quelle dei lavo­ra­tori che si ribel­lano. Que­sto «nuovo corso» dell’economia mon­diale, assi­cu­rato dai Cmi e dal capi­ta­li­smo finan­zia­rio, gene­rato dai gigan­te­schi pro­fitti accu­mu­lati dai grandi indu­striali dell’armamento e delle ban­che, resta sal­da­mente patriar­cale con moda­lità che vanno dallo sfrut­ta­mento inten­sivo delle ope­raie nelle «fab­bri­che glo­bali» alla crea­zione espo­nen­ziale e con­se­guente di nuove povere nei paesi indu­stria­liz­zati, pas­sando per la mise­ria che si pro­paga a tutte le donne del terzo mondo, visto l’indebitamento dei loro governi per la corsa al riarmo.

La Fran­cia è stata la prima delle cin­que grandi potenze nucleari ad avere una mini­stra delle difesa nel 2002, da allora in diversi paesi euro­pei il numero delle mini­stre della difesa è in cre­scita. Cosa cam­bia con l’arrivo di que­ste donne nelle stanze dei bottoni?

Nella sostanza nulla: il potere è ancora sal­da­mente nelle mani degli uomini del Cmi che con­ti­nuano a sce­gliere i migliori e adesso anche le migliori per i loro inte­ressi. La sicu­rezza reale richiede invece una poli­tica di giu­sti­zia sociale e inter­na­zio­nale e di abban­do­nare il para­digma della vio­lenza mili­tare come mezzo per risol­vere i conflitti.

Come giu­dica la situa­zione attuale?

Molto grave. La mili­ta­riz­za­zione delle nostre società ha assunto livelli mai visti, non ultimo il sistema di spio­nag­gio uni­ver­sale orga­niz­zato dalla Nsa. Arro­garsi il diritto di sor­ve­gliare tutti i cit­ta­dini del pia­neta è una dimo­stra­zione di forza del nuovo ordine mon­diale che non ammette altri modi di riso­lu­zione dei con­flitti al di fuori della vio­lenza mili­tare. Non è quindi un caso che la corsa al riarmo sia di nuovo in piena ascesa, soprat­tutto nel «terzo mondo». Chi arriva alla testa di quei paesi ha inte­rio­riz­zato il prin­ci­pio che per con­qui­stare e con­ser­vare il potere occor­rono le armi. Men­tre in tutte le cul­ture tra­di­zio­nali si era sem­pre pra­ti­cata la nego­zia­zione per evi­tare la guerra, come le pala­bres sotto i grandi alberi nei vil­laggi afri­cani, dove le discus­sioni si pro­trae­vano il tempo neces­sa­rio a tro­vare un accordo. Il colo­nia­li­smo ha spaz­zato via tutto questo.

Quali sono allora i prin­cipi guida delle «cit­ta­dine mili­tar­mente scorrette»?

Per cam­biare la società biso­gna par­tire da sé, com­por­tarsi con coe­renza, e cer­care solu­zioni dav­vero umane e demo­cra­ti­che. Quando i poli­tici pro­cla­mano la neces­sità d’intervenire mili­tar­mente in un altro paese per­ché la demo­cra­zia o i diritti umani sono in peri­colo, biso­gna mobi­liz­zarsi e tutto il pos­si­bile per­ché la nego­zia­zione sia ante­po­sta all’intervento mili­tare. Non si parte da zero, ma da quello che è già stato con­qui­stato in diritto inter­na­zio­nale, come la Carta delle Nazioni Unite che, se venisse appli­cata, sarebbe già un grande passo avanti.

 
 

Apprendisti stregoni

Iraq. Lo stato si sta frantumando non tanto per l’arrivo dell’Isil, quanto come risultato finale dell’occupazione militare Usa nel 2003. L’obiettivo perseguito fin dal 1991, la spartizione del paese in tre zone etnico-religiose, si sta realizzando con effetti devastanti

Gli Stati uniti hanno ini­ziato l’invio di armi – senza spe­ci­fi­care quali – ai pesh­merga kurdi per­ché impe­di­scano l’avanzata dei jiha­di­sti dello Stato isla­mico in Iraq e nel Levante (Isil). Nel frat­tempo è stato eva­cuato il per­so­nale del con­so­lato Usa a Erbil, la capi­tale del Kur­di­stan ira­cheno. Forse è il segno che nem­meno Obama crede nella sua strategia.

Lo stato ira­cheno infatti si sta fran­tu­mando non tanto e non solo per l’arrivo dell’Isil o per il man­cato raf­for­za­mento mili­tare dell’opposizione siriana – come rim­pro­vera Hil­lary Clin­ton al pre­si­dente sta­tu­ni­tense – ma come risul­tato finale dell’occupazione mili­tare Usa dell’Iraq nel 2003. L’obiettivo per­se­guito fin dal 1991: la spar­ti­zione dell’Iraq in tre zone in base alle appar­te­nenze etnico-religiose, si sta rea­liz­zando con gli effetti più devastanti.

Seb­bene i com­bat­tenti kurdi siano stati gli unici a con­tra­stare, in parte, l’avanzata dei fana­tici jiha­di­sti non baste­ranno gli «aiuti» sta­tu­ni­tensi (i bom­bar­da­menti che con­ti­nuano da parte Usa e l’invio di armi) a scon­fig­gere al Qaeda, non potranno infatti essere i kurdi a «libe­rare» l’Iraq. Sem­bra di assi­stere al remake dell’avventura afghana quando gli Usa pun­ta­rono tutte le loro carte sui tagiki dell’Alleanza del nord. Il fal­li­mento afghano con il ritorno dei tale­ban evi­den­te­mente non è bastato.

I raid ame­ri­cani – il primo inter­vento in Iraq dopo il ritiro delle truppe nel 2011 – avreb­bero col­pito obiet­tivi dell’Isil, ma non è dato sapere quali. Del resto non è facile avere infor­ma­zioni dalla zona dei com­bat­ti­menti, soprat­tutto dopo che la gior­na­li­sta kurda Deniz Firat, dell’agenzia Firat, è stata uccisa da una scheg­gia. Deniz si tro­vava nella zona di Makh­mur la città che sarebbe stata ricon­qui­stata dai pesh­merga insieme a Gwer. L’Isil avrebbe invece occu­pato Jala­wla, più a est.

Nella pro­vin­cia di Ninive si sta con­su­mando la tra­ge­dia dei pro­fu­ghi delle mino­ranze: gli yazidi e i cri­stiani. Migliaia di yazidi soprav­vis­suti alle minacce, ai mas­sa­cri e alla fame, dalla zona di San­jir si sareb­bero diretti prima in Siria e poi nel Kur­di­stan, dove si tro­vano anche gran parte dei cristiani.

Ma l’attenzione nel frat­tempo si è spo­stata a Bagh­dad dove è in corso il brac­cio di ferro tra il nuovo pre­si­dente Fuad Mas­sum e l’ex pre­mier Nuri al Maliki, che non vuole rinun­ciare al terzo man­dato. Mas­sum ha dato l’incarico per for­mare il nuovo governo a Hai­der al Abadi, ma al Maliki sem­bra deciso a sfi­dare il presidente.

Al Maliki, abban­do­nato anche dagli ame­ri­cani, è uno dei mag­giori respon­sa­bili della situa­zione ira­chena. Dispo­tico, auto­ri­ta­rio – nello scorso man­dato aveva tenuto per sé il mini­stero della difesa, degli interni e il comando dell’intelligence – e ultra­set­ta­rio: ha escluso da tutti i ruoli di potere, dall’amministrazione pub­blica e dall’esercito, i sun­niti. Tanto che l’avanzata dell’Isil nelle zone sun­nite non ha tro­vato alcuna oppo­si­zione. Ma con­tro una nuova nomina di al Maliki, seb­bene il suo par­tito – Stato di diritto – abbia vinto le ultime ele­zioni (senza otte­nere la mag­gio­ranza), si è schie­rata anche gran parte dell’Alleanza nazio­nale sciita.
L’ex pre­mier por­terà la sua deter­mi­na­zione a restare al potere alle estreme con­se­guenze con un golpe, come lasce­rebbe inten­dere il dispie­ga­mento nei luo­ghi stra­te­gici di Bagh­dad dell’esercito, delle forze di poli­zia e delle unità di élite che rispon­dono solo a lui?

Il pre­si­dente Mas­sum, kurdo secondo la costi­tu­zione, forse in attesa degli ame­ri­cani, sta in qual­che modo ten­tando di fer­mare il «nuovo dit­ta­tore» come viene chia­mato al Maliki dall’opposizione.Ma comun­que for­nendo armi non si è mai posto fine alle guerre, la deriva in Libia lo dimostra.

http://www.ilmanifesto.info

 

 

Ci sono lettori che mi chiedono di pronunciarmi sulla tragedia di Gaza. 
L’ho già fatto più volte nel corso di questa crisi. 
Considero altamente probabile che il rapimento e l’uccisione dei tre ragazzi israeliani sia stato una ennesima false flag operation. Cioè un pretesto per organizzare una attacco letale contro Hamas, contro la Striscia di Gaza, contro il popolo palestinese nel suo insieme. E’ l’ennesima prova che Israele non ha mai voluto negoziare e che il suo obiettivo immediato è di cancellare definitivamente ogni possibilità per uno stato palestinese. 
Posso solo provare cordoglio – e un acuto senso di impotenza – per la vittime innocenti, per gli oltre 500 morti già contati. Saranno molti di più, temo. Posso solo aggiungere la mia vergogna di appartenere a questo “Occidente” assassino e vile, che non sa dire nulla di fronte a un tale massacro. E che quello che dice è ipocrita e falso. Oggi ho visto la faccia di John Kerry, indignato e sconvolto per i tredici soldati israeliani uccisi nell’invasione di Gaza. 13 fanno orrore; 500 è un numero. Questa è la nostra superbia e la nostra illusione: che le nostre vite valgano di più venti, cento volte di più, delle loro. Verrà il tempo che dovremo pagare questa superbia. 
Ma questo è solo un aspetto. Ci torno ora perché mi pare che troppi non riescono a collegare i fatti. Ciò che accade a Gaza è un tassello del mosaico che conduce a una guerra molto più grande. Stiamo tutti molto attenti. Gaza fa parte di un’operazione di scatenamento del disordine mondiale. Aggiungiamo il califfato di Irak e Siria. Aggiungiamo la crisi ucraina.
Non perdiamo di vista il quadro. Chi muove tutte queste pedine insieme vuole andare “oltre”. L’obiettivo è la Russia. Ecco perché io occupo gran parte del mio tempo a seguire questo disastro. E l’altro obiettivo (segnatamente per Israele e l’Arabia saudita) è l’Iran. Questi due obiettivi equivalgono a un salto di qualità bellico incalcolabile. 
Gaza è la cartina di tornasole di un disegno apocalittico. Muoviamoci per fermarlo.

 

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